CLASSICO CALENDAR - LA SALUTE - 'Ho deciso di essere felice perchè fa bene alla mia salute' - Il Decameron del nostro presente - PILLOLA 2
Salute: Il
Decameron nel nostro presente
«E fu questa
pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo
comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il fuoco a le
cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate».
La «mortifera pestilenza» (che
Boccaccio non chiama mai «peste» ma solo con delle perifrasi) diventa la
cornice del Decameron, il suo capolavoro, la cui stesura sarebbe
cominciata in quello stesso anno per concludersi nel 1350. I cronisti
raccontano che l’epidemia, scatenata da un focolaio orientale e dilagata nelle
città portuali europee, sarebbe approdata a Firenze, già afflitta da una
profonda crisi economica e politica, in primavera per dileguarsi in
ottobre-novembre. Il Decameron ha un duplice scopo:
l’intrattenimento piacevole e la morale, ma intanto Boccaccio racconta con
precisione, da testimone oculare, le condizioni della città la quale, non
appena si rivela la minaccia e non avendo effetto alcun provvedimento umano,
viene ripulita di tutte le sue «immondizie» e
chiusa: «vietato
l’entrarvi dentro a ciascuno infermo».
I sintomi non erano quelli
orientali come ad esempio il sangue dal naso, ma «gavoccioli», rigonfiamenti sotto
l’inguine e sotto le ascelle, alcuni cresciuti come mele di media grandezza,
altri come uova. I bubboni cominciano poi a moltiplicarsi manifestandosi in
ogni parte del corpo e cominciando a «permutare in macchie nere e livide». Intanto tutti i cittadini diventano medici e
scienziati: ognuno dice la sua e ognuno fa come vuole, visto che i consigli dei
«medicanti» non portavano gran profitto.
Conviene guardare indietro per
capire l’oggi e il domani nonostante la scienza ed il progresso, gli istinti e
le paure di tutti, così come le reazioni, sono fondamentalmente le medesime. Alcuni si affidavano agli astrologi che tentavano di far
combaciare tutto con le loro previsioni, altri si affidavano alla medicina
anche se era in difficoltà, altri si divertivano come non mai e bevevano molto,
altri ancora spezzavano del tutto i rapporti. Ecco dunque l’idea di
allontanarsi dalla città. Ritirarsi poco lontano del centro abitato, in modo
sobrio ma sufficientemente ilare per scongiurare sia una malattia fisica che
l’ossessione mentale è l’idea che trova, alla fine, dieci giovani tutti d’accordo.
Al posto della tv o della tecnologia, fondamentali divennero gli omologhi del
tempo, i libri, il “novellar” e semplici amenità ormai perdute dentro le città.
E’ curioso osservare, dalla lettura dell’opera, che il tempo effettivo
trascorso fuori città dai giovani è di 14 giorni, anziché 10 come il titolo
dell’opera suggerisce, poiché il venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato
alla cura personale delle donne. L’isolamento fu la chiave di volta, per quei
nobili giovani: “una
piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, piena
di piante tutte di verdi fronde ripiene piacevole a riguardare; in sul colmo
della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo”. Infine l’igiene fu
per loro fondamentale, certamente non si parla di disinfettanti,
ma la metafora del fuoco (dell’«appiccarsi da uno a altro») è eterna: ad esempio l’immagine dei
fiammiferi che circolava qualche tempo fa.
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