Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.» Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Quando Mathieu Kassovitz nel 1995 consegna il suo Odio prima al Festival di Cannes (dove è premiato per la miglior regia) e quindi alla storia del cinema, lo impacchetta con questa frase diventata celebre, che assolve sia al ruolo di incipit che a quello di “outro” della pellicola. In mezzo corrono 95 minuti tra i più intensi e vividi della cinematografia europea, che ad un trentennio dall’uscita rimangono il paradigma dello street movie contemporaneo. Siamo catapultati in una giornata di vita nelle Banlieue parigine, scortati da un tridente assortito, interprete del melting pot che già nel secolo scorso caratterizzava le periferie francesi (e iniziava ad esportare la sub-cultura che sarà, tra le altre co