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Marilena

Le cicale cantano nei prati qua intorno. Sono centinaia, migliaia, tutto il giorno e tutta la notte cantano. Sono le nove di un lunedì sera, o martedì, non lo so più. Qua le serate sono tutte uguali, il sole si abbassa sulle colline, sulle zanzare, sulla statale là in fondo. Il bar di Marilena ha i soliti cinque tavolini fuori, occupati dagli anziani. C’è chi fuma, chi gioca a carte svogliatamente, il caldo rende l’aria ferma, il fumo delle sigarette si mischia a quello degli zampironi. Gli unici ad alzare un po’ la voce sono quattro ragazzini che bevono the freddo - artigianale, non abbiamo le lattine qua - subito messi a tacere dagli sguardi eloquenti degli anziani. Nel bar di Marilena lavoro anche io. 
Non c’è molto da fare in realtà. Servo un paio di caffè, spillo qualche birra, indico lo stand delle patatine ai ragazzi che mi chiedono qualcosa da stuzzicare con l’aperitivo, a volte esco nel dehor e guardo lontano, al fondo della strada c’è il distributore di benzina, ormai vecchio e scrostato, con qualche lettera ancora illuminata - si legge solo più TAML. Guardo ancora più giù, verso lo stradone, verso le colline e ancora dopo, non so se di là ci sia il mare, nemmeno mi interessa in realtà. Vorrei andare via, via da queste strade polverose, dalle cicale, dalle carte e dagli zampironi, da Marilena, dal the appiccicoso nei bicchieri con il ghiaccio, via da questo luglio ogni anno più caldo - qua da noi - e da questo paese sempre più vuoto. Una volta d’estate le case verso il bosco si riempivano, arrivavano le famiglie dalla città, c’erano i bambini e giocavamo insieme, loro con le bici nuove fiammanti comprate in negozio a Milano o Varese, io con la Graziella di mia mamma - la catena mi cadeva sempre ma loro si fermavano e mi aspettavano, poi hanno smesso di aspettarmi. Hanno smesso, poco a poco, di venire qua d’estate. Le case sono rimaste vuote, con le persiane cadenti e l’edera sul muro. Siamo diventati grandi, loro andavano in vacanza con gli amici a Rimini o a Jesolo, o magari a Milano Marittima e io rimanevo qua. Ho iniziato a lavorare al bar di Marilena a sedici anni per ammazzare il tempo, per distrarmi con i discorsi delle persone, sempre più tristi di anno in anno. Non mi mancano quei bambini. Non mi manca niente, qui. Niente mi tiene legato a questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini, alla paglia bruciata a bordo strada, all’odore del temporale di pomeriggio, agli sguardi vigili dietro i ventagli delle signore sedute davanti a casa. Allo stesso tempo, la mia vita è qui. Io sono questo posto, io sono il bar di Marilena e ogni mosca che si posa sui tavoli. Mi scuote la campana, dieci rintocchi, nell’aria si diffondono le note dell’avemaria. Mi asciugo le mani nel grembiule e torno dentro: a stare sempre qua si pensa troppo, è solo un’altra estate in fondo.

E. B.
II B Class. 

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