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Che tu possa essere libera, ovunque sceglierai di andare: all’università, in discoteca, in riva al mare o in una strada in penombra. Che tu possa camminare a testa alta, qualsiasi persona sceglierai di amare: un uomo, una donna, solo ed esclusivamente te stessa.
Ti auguro un amore che ti faccia piangere, a patto che in futuro ti insegni a scegliere solo amori che ti facciano sorridere.
Ti auguro un’amica fidata, un insegnante che creda in te, una famiglia disposta a combattere al tuo fianco. O di essere talmente forte, da farcela anche da sola.
Che tu possa decidere cosa fare del tuo futuro: se studiare, lavorare, sposarti o avere figli o tutto insieme. Che nessuno possa importi un amore, una professione, un orologio per la tua fertilità. Che tu possa amare senza sentirti sporca o fuori posto. Che tu possa amare sempre e solo, se e quando, tu ne avrai voglia.
Ti auguro la tenacia di un vulcano e la delicatezza di un fiore. Ti auguro animo puro e solidarietà verso le altre donne. Una mano pronta a tendersi, un cervello che vada per la sua strada, un cuore lontano dalla mediocrità. Che tu possa imparare a fregartene dei giudizi, qualsiasi bocca li pronunci. Perché sei nata con il diritto di essere la donna che sei. Perché “quello che sei, dove vai, ciò che vuoi, lo sai soltanto tu”. Che le ferite collezionate non ti facciano male al punto di ucciderti, ma che ti diano la forza per ricominciare. Che tu possa rinascere dal dolore, dal vuoto, dall’oblio.
Ti auguro di non tradirti, accontentarti, arrenderti o annegarti mai. Ti auguro un sogno, un pugno di libri ed il diritto all’infanzia, alla salute, alla vita e alla felicità. Che tu possa essere più forte di ogni violenza ed orrore.
Queste parole le vorrei dedicare a ogni donna, prima che sia troppo tardi. Credo siano queste le parole che Daisy Coleman avrebbe voluto sentirsi sussurrare piano, con voce dolce, mentre una mano le accarezzava i capelli. Credo che queste parole non le siano mai state sussurrate, o, forse, le sono state urlate troppo tardi. Daisy Coleman era una tatuatrice, avvocatessa e cofondatrice di SafeBAE, associazione che aumenta la consapevolezza sulla violenza sessuale nelle scuole e che cerca di prevenire la violenza sessuale adolescenziale. Anche Daisy era una sopravvissuta a uno stupro: a 14 anni venne stuprata da un gruppo di ragazzini, a una festa, per poi essere lasciata sulla veranda di casa della sua famiglia, con addosso solo una maglietta e sudore, con il freddo a colpirle la pelle e invaderle l’anima. La sua storia è stata inserita nel documentario di Netflix “Audrie & Daisy”, che ha raccontato anche la storia di Audrie Pott, la quale si suicidò dieci giorni dopo essere stata violentata. Avranno detto che se l’era cercata; che, forse, la sera dello stupro aveva bevuto alcolici; che era troppo carina per avere 14 anni. Intanto il 4 agosto 2020 Daisy Coleman si è suicidata, all’età di 23 anni. Non ha mai avuto giustizia perché i capi d’imputazione contro il suo stupratore sono caduti. Il fatto era stato ripreso dal telefono di un altro ragazzo, ma il suo carnefice era il nipote di un ex politico repubblicano. I colpevoli restano a oggi impuniti, mentre Daisy, a causa di quello stupro, ha dovuto sopportare l’inesorabile giudizio dei suoi concittadini, continuando a subire molestie e vessazioni online, l’incendio della sua abitazione e ripercussioni sulle vite della madre e del fratello, cui sono stati stroncati rispettivamente lavoro e carriera sportiva. Stuprare è un messaggio chiaro: posso ucciderti tenendoti in vita. Ha iniziato una battaglia lunga una vita contro un trauma che non è riuscita a rimuovere o accantonare. Non ha mai superato il trauma della violenza, né il bullismo e il cyberbullismo che si sono divertiti a gettarle addosso successivamente. Chissà se ridono ancora, ora. Forse era proprio ciò che volevano: diventare assassini, uccidere una seconda volta, perché una non era abbastanza. Sono ricolma di tristezza e sento un vuoto all’altezza dello stomaco. Perché una vittima di stupro che si suicida muore due volte. E i dati ne sono la conferma: il 33% delle donne che sopravvivono a uno stupro contemplano il suicidio. Il 13% delle donne che sopravvivono allo stupro tentano il suicidio. Ma lo stupro non ha nulla a che vedere con l’atto sessuale, ha a che vedere con l’esercizio coatto del potere che porta a prendersi qualcosa per sentirsi appagato, importante. Si ritiene che sia un proprio diritto, in quanto superiori rispetto alla persona stuprata, la quale viene considerata alla stregua di un oggetto. Le ripercussioni psicologiche per chi subisce uno stupro sono devastanti. Il suicidio di Daisy dimostra che a vincere siano state due forme di potere: quello di stampo patriarcale, che abusa e violenta, e quello di chi, con ricchezza e posizioni sociali di rilievo fa pagare la sua azione a chi denuncia ciò che subisce. Questa non è solo la storia di Daisy: la sua storia è condivisa da tante altre donne, è spaventoso quanto sia comune. Troppe vittime nemmeno denunciano perché temono queste ripercussioni e diverse che lo fanno, subiscono la stessa sorte di Daisy. Queste storie sono così comuni tra noi donne, che stiamo solo cercando di elaborarle. Continuiamo a lottare per i nostri diritti, non solo per noi stesse, ma anche per tutte quelle donne che abbiamo perso lungo la strada. Il combattimento non è ancora finito e, forse, non finirà mai. Abbiamo troppi diritti da rivendicare per farci sopraffare dalla rabbia. Dobbiamo stringere i denti e continuare il combattimento iniziato dalle nostre antenate.
D.V.
IV B ling.
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