Panchine
- Quindi è così che finisce- dice
Marco, girandosi verso di me.
- Sembrerebbe proprio di sì- gli rispondo io, mentre sorrido e mi sposto i
capelli dagli occhi.
Da quando ci hanno mandato
l’avviso di sgombero del nostro appartamento nella residenza universitaria
abbiamo avuto circa 24 ore per fare su alla meno peggio tre anni di oggetti
accumulati nelle nostre camere e letteralmente
sparire dalla vista di Anna, la sorvegliante che ha messo su tutta questa
storia e ci ha fatti cacciare via.
Sono le sei e mezza. Il sole sta
tramontando su Genova mentre Marco sta cercando di chiamare un taxi - non
risponde nessuno. È aprile, l’aria è calda, già quasi estiva, per questo
stanotte dormiremo su una panchina del lungomare -una a testa s’intende- e
domani si vedrà.
Dobbiamo ancora trovare il modo
di dire ai nostri genitori che siamo stati cacciati, per questo ci siamo presi
un po’ di tempo, non troppo: una o due settimane, giusto il tempo di
raccogliere le idee e pensare al modo migliore per raccontarlo. Niente di cui
preoccuparsi, mi pare, solo che Marco è così ansioso, che si sta facendo venire
la tachicardia già solo perché sembra che questa domenica non ci sia speranza
di trovare un taxi disposto a venire a recuperarci.
Siamo migliori amici dal momento
in cui sono arrivato alla residenza. Me l’hanno assegnato come compagno di
stanza e la prima cosa che ha fatto è stata offrirmi metà della lasagna, che
sua mamma gli aveva lasciato congelata per cena. Ha un cuore d’oro ma purtroppo
non ha mai dormito su una panchina, quindi al momento è terrorizzato all’idea.
Alla fine ci decidiamo di
prendere un autobus, il 32b, non sappiamo nemmeno bene dove vada ma a noi serve
solo che porti verso il mare. Il capolinea è in zona del porto vecchio. Adesso
sono circa le sette e un quarto e scendendo mi colpisce l’odore di fritto
e di pesce proveniente dai ristoranti e
dalle barche ormeggiate -Genova è la mia città, questo è l’odore del porto,
l’odore di casa. Marco invece viene da Cogoleto: c’è un porto anche lì ma non è
la stessa cosa, là si respira l’aria di paese, qui a Genova invece si riesce a sentire il vero significato della
parola “globalizzazione”. La città vecchia con i suoi vicoli che sembrano dita
nere accoglie facce di ogni angolo di mondo, parla loro tutte le lingue perché
tutti i marinai ne parlano una sola: quella del mare e dei carruggi che da esso
si diramano, dal nord al sud del mondo. Io lo so perché ci sono stato, ogni
grande città di mare è così.
- Hai fame? -
Marco mi legge nella mente. - Sì, e se mi segui conosco un posto dove si mangia
un fritto di pesce spettacolare, è proprio qua dietro...-. - Ale guarda che lo conosco anch’io, mi ci
porti circa ogni volta che usciamo a Genova… - mi dice Marco, ma comunque si
incammina dietro di me.
Dopo aver mangiato dal Brigantino
ci si sente in pace col mondo. Sarà il pesce che è sempre fresco, sarà il vino
o l’aria fresca di aprile, ma al momento mi sembra tutto lontano: l’università,
Anna la sorvegliante, lo sfratto, mi sembra che appartengano ad un’altra epoca. Mi accendo
una sigaretta e passo il pacchetto a Marco che fa lo stesso gesto - con la mano
quasi chiusa sull’accendino perché qua sul molo col vento la fiamma ondeggia e
si spegne.
Paghiamo il conto e ci incamminiamo,
guardiamo le barche, discutiamo quale
vorremmo comprare, osserviamo i proprietari e le persone a passeggio come noi.
- Sembra sabato sera - mi dice
Marco ridendo. – Sì ma stasera non
abbiamo orari , nessuno chiude la residenza all’una – gli rispondo contento. -
Ale non abbiamo orari perché ci hanno sbattuti fuori...- ribatte Marco e le sue
parole mi riportano in un attimo alla realtà.
Marco ha ragione. L’effetto
benefico della cena al Brigantino sta svanendo e si è anche alzato il vento;
rabbrividendo- siamo in camicia da stamattina- ci spingiamo verso i vicoli: più riparati ma
sicuramente meno turistici e direi sconsigliati a chi si trascina valigie
enormi che lo rendono una preda facile.
Infatti facciamo pochi passi e
veniamo fermati da un uomo con il volto bruciato dal sole e gli occhi neri: ci
chiede se abbiamo bisogno di qualcosa e alla nostra risposta negativa rilancia
chiedendo qualche spicciolo. Gli dò qualche euro perché non voglio avere problemi
e spero ci lasci proseguire ma probabilmente ha capito la nostra situazione
precaria perchè si incammina con noi. - Se volete dormire un po’ conosco un
posto che fa dei prezzi...- inizia l’uomo. -No grazie amico davvero, abbiamo
già un posto per dormire- gli rispondo. Dopo ancora qualche insistenza inutile
l’uomo infine si dilegua.
Proseguiamo ancora un po’ a
casaccio, l’aria si fa più ferma e pesante man mano che ci inoltriamo nei
vicoli: questa è la pancia della città.
Genova la conosco bene ma queste
vie sono mutevoli, liquide, intersecate tra loro, molte senza nemmeno un nome,
altre così strette da dover passare in fila indiana. I neon di pizzerie al
taglio e kebabbari illuminano la nostra strada; vetrine con dentro narghilè
polverosi e teiere di tutte le forme attirano la nostra attenzione; è quasi
impossibile mantenere una direzione precisa e comunque ormai non sapremmo quasi
più tornare indietro.
- Ragazzi, da questa parte!- la
voce di una donna interrompe il flusso dei miei pensieri - Ragazzi!-
- No guardi
signora siamo a posto così...-mi affretto a dirle. -Ma è evidente che vi serva
un posto per dormire, e io ho delle stanze libere se volete, costa poco...-.
Marco mi guarda in modo eloquente: era già stanco mezz’ora fa, ma questo non è il posto per fermarsi. - No grazie davvero- rifiuto infine -sarà per la prossima volta...-
Finalmente troviamo qualcosa di
simile ad uno spiazzo erboso con due panchine abbastanza vicine. Siamo esausti,
al buio non riconosco la zona e la prospettiva di dormire al freddo non è delle
migliori. Marco si lascia cadere la valigia e si appoggia pesantemente allo
schienale di legno rovinato dall’aria salmastra: - Ale ascolta, non è per fare
sempre quello che critica ma sembra proprio che Dio ci abbia mandato almeno due
concrete possibilità di evitare le panchine e tu le abbia rifiutate tutte e
due-.
Forse Marco mi legge davvero
nella mente, ma questo non è il momento di farsi venire dei dubbi. - Marco
senti, quei posti non erano affidabili, sicuramente ci avrebbero rubato
tutto.... e poi dobbiamo risparmiare almeno un po’, senza contare che dormire
su una panchina, sotto le stelle, è un’esperienza da fare almeno una volta
nella vita- provo a convincerlo sorridendo a malapena. Marco mi guarda un po’
di traverso, poi mi tira un pugno sulla spalla e sorride:- Speriamo almeno non
si metta a piovere… -. Aggiusto la valigia come fosse un cuscino, Marco fa lo
stesso e ci addormentiamo nel silenzio della piazza.
Mi svegliano voci in una lingua
che non conosco. Intorno a noi il mercato - non ricordavo fosse in questa zona
-, le risate, l’odore di spezie e verdure, ma cosa più importante sotto la mia
testa, legno duro e freddo: non c’è più nessuna valigia. Mi tiro su a sedere
dolorante, poi mi giro verso Marco. Sta sorridendo e i capelli chiari brillano
sotto quei primi raggi - penso non sia più tardi delle sette.
- Marco le valigie...-. Mi
verrebbe quasi da piangere, è sparito tutto il nostro bagaglio e non mi sono
accorto di niente. - Ma sì Ale, di che ti preoccupi? Erano tutte cianfrusaglie
in fondo. E poi ce le avrebbero rubate
comunque no?-. Sorrido un po’incerto. So già che questa sarà una delle storie
che Marco racconterà per tutta la vita. “Quella volta in cui Ale si è fatto
rubare le valigie da sotto la testa”. Lo sento già.
- Andiamo a fare colazione?- mi dice mentre ci alziamo. - Sì, penso ci
sia un qualche bar là dietro...-. -Vada
per il bar ma stasera scelgo io dove dormire – mi rimprovera scherzosamente. Rido
forte e ci incamminiamo, leggeri, nel mattino della mia città.
E Boggetti, IIIB Liceo Classico
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