Immagine scattata dalla scrivente. |
Il 30 Marzo 1853 a Groot Zundert (Olanda) nasceva Vincent Van Gogh e oggi, a 168 anni dalla sua nascita, è considerato uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Iniziamo ripercorrendo i momenti chiave della sua vita tormentata. Figlio di un pastore protestante di famiglia borghese, Vincent iniziò a disegnare da bambino nonostante le critiche del padre. Durante le sue lunghe passeggiate in campagna si fermava spesso a scarabocchiare tutto ciò che lo colpiva. Aveva una grande sensibilità ed era un amante della natura, come possiamo ammirare già dai suoi primi schizzi. All’età di undici anni venne mandato in collegio, esperienza che ricorderò sempre come un grande trauma. Dopo soli quattro anni fu costretto a trovare un lavoro a causa della precaria condizione economica della famiglia, diventando apprendista presso la galleria d’arte internazionale di Goupil all’Aia. Qui venne travolto dalla passione per le belle arti e iniziò ad interessarsi al mestiere di mercante d’arte. Nel maggio del 1973 ottenne una promozione e venne trasferito alla galleria Goupil di Londra, ma presto cadde in depressione dopo che una ragazza di cui si era invaghito rifiutò la sua proposta di matrimonio e in una lettera al fratello Theo scriverà:
“Sono destinato a soffrire molto, a causa di tutto ciò che non posso cambiare di me: il mio aspetto, il modo in cui parlo e i miei vestiti. Mi muoverò sempre in una sfera diversa.“
Cominciò così a credere che la religione fosse la sua strada. Lavorò come predicatore laico a Borinage (Belgio) e l’anno seguente, a causa di alcuni tagli agli stipendi, tornò a casa e si rifugiò nella pittura.
“Mio Caro Theo, sono un uomo passionale, capace di fare pazzie, ma il problema è trovare il modo di fare buon uso di queste grandi passioni. Per esempio, ho una violenta passione per l’arte che mi da la gioia più grande. Ho spesso nostalgia del mondo della pittura.”
Nel 1875 ai trasferì a Parigi, città che gli diede la possibilità di conoscere artisti come Monet, Renoir, Degas, Pissarro e, ultimo ma non per importanza, Paul Gauguin, con il quale Vincent instaurò un’amicizia travagliata. Entrambi iniziarono la loro carriera artistica tardi e da autodidatti. Due linguaggi innovatori basati sulla potenza espressiva del colore. Iniziò a dipingere a 27 anni senza alcuna formazione artistica. Grazie al sostegno economico del fratello allestì il suo primo studio all’Aia, dove creò i suoi primi dipinti in contrasto con la ricerca del bello tipica dell’epoca: non amava gli abbellimenti, voleva esprimere invece la dura vita del lavoro nei campi. Dopo la lite col fratello si trasferì in campagna nel sud della Francia. Qui visse nella celebre “Casa Gialla”. Ritrovò la pace e un nuovo modello di ispirazione, la natura. La sera del 23 dicembre Vincent accusò Gauguin di aver infranto il suo sogno di aprire una comunità di artisti ad Arles e in preda ad allucinazioni si tagliò il lobo dell’orecchio sinistro. Fu trovato la mattina successiva solo e addormentato. All’età di 36 anni decise di ricoverarsi nel manicomio Saint-Rèmy-de-Provence dove dipinse la celebre Notte stellata, oggi esposta al MOMA di New York. La malattia di Vincent alternava mesi di sanità mentale a mesi di disturbi, allucinazioni, panico e paranoie, e ad ogni crisi corrispondeva un tentativo di suicidio. Dopo essere uscito dal manicomio scoprì che nel frattempo il fratello si era sposato e aveva avuto un figlio. Preoccupato di gravare troppo sulle sue finanze, tentò di farla finita un’altra volta, bevendo acquaragia e vernice tossica. Fu solo un anno più tardi che mise fine alla sua “tristezza che non avrà mai fine” proprio mentre faceva quello che amava di più: dipingere. Si sparo un colpo di rivoltella allo stomaco mentre era in un campo e riuscì a fatica a tornare in camera. Fu trovato il giorno seguente dal proprietario della locanda e morì poco dopo tra le braccia del fratello. Nel gennaio di quello stesso anno, poco prima di morire, dopo la pubblicazione di una recensione su un giornale francese, La vigna rossa fu il primo e unico quadro venduto durante tutta la sua carriera. In soli dieci anni produsse quasi mille dipinti tra disegni e gli schizzi, la maggior parte dei quali furono realizzati nel 1888-1889. In principio i suoi quadri avevano come protagonisti la natura morta e i contadini con la loro dura vita nei campi. Con il viaggio a Parigi entrò in contatto con i colori degli impressionisti, la tecnica divisionista e l’arte giapponese: colore steso con pennellate dense, corpose e definite che donano un’intensa carica espressiva. Fu però con il trasferimento ad Arles che Van Gogh raggiunse l’apice del suo splendore. Trasformò il dolore e il peso della sua vita tormentata in un’estatica bellezza.
Il dolore è facile da rappresentare, ma usare la collera e il colore per rappresentare l’estasi e la grandezza del mondo… nessuno l’aveva mai fatto e magari nessuno lo rifarà.
Vorrei concludere con un passaggio tratto da una lettera che Vincent scrisse al fratello Theo che mi ha colpito per la semplicità che traspare nell’ammettere di essere nati con uno scopo, quello di essere arte che genera altra arte:
“Tutti pensano che lavoro troppo velocemente ma non è forse l’emozione, la sincerità del sentimento per la natura che ci spinge? E quando le emozioni sono talmente forti che non riesci a smettere di lavorare, quando le pennellate ti vengono una dopo l’altra con coerenza, come fanno le parole quando parli, allora devi ricordarti che non è sempre stato così e che in futuro ci saranno giorni tristi, senza ispirazione. Si deve battere il ferro quando è caldo”
C.G.
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