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“Stai zitta”, il nuovo libro di Michela Murgia, trae origine da una spiacevole conversazione radiofonica avvenuta nel maggio del 2020, quando la scrittrice invitò telefonicamente, a Radio Capital, un celebre psicologo a chiarire alcune dichiarazioni da molti ritenute sessiste. Incalzato dalla Murgia, questi perse le staffe, invitandola ripetutamente a stare zitta. Da qui la necessità di un libro che spieghi quanto importante sia il linguaggio attraverso il quale passa la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne. “Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio.” “Sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto vive quella semantica, che è una tragedia etica. ”Ho letto “Stai zitta” perché, nell’ultimo periodo, mi sono ripromessa di approfondire i temi cari al femminismo, ma, soprattutto, per capire meglio come il linguaggio possa danneggiare una donna, non permettendole di godere appieno della sua parità, di non poter mostrare pubblicamente e apertamente la sua intelligenza, reprimendo pensieri ed opinioni perché la donna socialmente gradita è una donna silenziosa. Si tratta di un linguaggio che continua ad alimentare la discriminazione a qualunque livello sociale, politico, lavorativo ecc. e in qualunque luogo. Discriminazione che avviene privando le donne dei loro nomi e dei titoli professionali, spesso “signora” o “signorina” sono usati ingiustamente quando ci si trova di fronte ad una dottoressa, ad un'avvocatessa, ad un’astronauta (termine che con l’apostrofo molti correttori automatici dei programmi di scrittura segnano errato), a donne che hanno speso anni in formazione, studio, pratica.“Pare che una donna che occupa una posizione sociale prestigiosa, per gli italiani rimanga un evento talmente alieno da scatenare all’istante il bisogno di ricondurla a un ambito di familiarità e contenzione, quantomeno verbale.” Viviamo dunque in una società che tenta di ricondurre e ridurre, sempre, la donna alla sola sfera familiare e casalinga con nomignoli ed appellativi. Nonostante la lunga e costosa formazione, nella quale abbiamo investito, dobbiamo anche investire del tempo prezioso ad esigere di essere definite per quello che facciamo e sappiamo, non per chi frequentiamo. Ad aggravare questa situazione c’è poi il mansplaining, una pratica sessista con la quale l’uomo, durante una discussione con una donna, tenta di chiarirle e sempificarle un concetto, un’idea, nella ferma convinzione che lei ne sappia meno di lui. Una pratica talmente radicata e praticata da non essere spesso riconosciuta e dunque comunemente accettata. Meno evidente sono i risvolti negativi in ogni ambito sociale che comporta la sottovalutazione del pensiero delle donne. “Le frasi che preludono al “manchiarimento” sono subdole e non sempre facilmente riconoscibili, ma tutte vogliono dire comunque la stessa cosa: ne so più io di te.” Leggere questo breve saggio mi ha chiarito molti punti sulla questione del linguaggio e sulla sua importanza. Le parole possono fare male, molto male, allora capirne l’importanza e la necessità di saperle adoperare nel modo più giusto, in qualunque ambito e verso chiunque, diventa essenziale. Inoltre, ho ripensato a tutte le volte che ho sentito queste dieci frasi nella mia vita e, innumerevoli, queste frasi sono state rivolte a me. Alle volte, altrettanto innumerevoli, che in mia presenza, a mo’ di monito, sono state rivolte ad altre. Talvolta da altre donne, di cui si parla sempre più spesso da quando abbiamo imparato a riconoscerle mimetizzate nei luoghi di potere, più spesso da uomini di tutte le età. Sembra proprio una naturale deriva della nostra comunicazione, quasi un intercalare, un normalissimo fenomeno di costume. Peccato che, quando si osservi come si parla alle donne o delle donne, il costume somigli, tantissimo, ad una camicia di forza. Non c’è nulla di pittoresco o di ironico, o di goliardico, nei modi che si utilizzano sui media, sui social, in famiglia e nei luoghi di lavoro per parlare alle donne e/o delle donne. Nel libro ci sono molti spunti che calzano perfettamente con i modi paternalistici che sono utilizzati per relazionarsi con le donne in gravidanza o in puerperio o dopo un aborto volontario o un lutto perinatale da certa suddetta ostetricia, da certi “professionisti”, da certe aziende, da certe donne molto Uome, da certi pensatori, da certi partner, persino. L’errore alla base di questo fallimento comunicativo, che è orientato a mantenere la disparità di potere e la sottomissione, è che chi parla così, chi fa “manchiarimenti” non richiesti (e ci sono enciclopedie sui “manchiarimenti” che le donne si sentono fare rispetto alle loro esperienze, a partire da: “vedrai ti ricordi male, secondo me voleva dire questo, secondo me in realtà è successo questo, ti sei confusa”) lo fa perché ha imparato a parlare sulle donne e delle donne. Non realmente CON, quasi mai PER (in favore di). Studiare le varie tipologie di femminismii è un processo lungo e non semplice, in una cultura sessista e patriarcale. Non è però impossibile imparare, basta iniziare! Ecco, questo è un possibile inizio, utile nella pratica a prestare attenzione alle parole che usiamo nella quotidianità. “Stai zitta” vi impegnerà poco tempo, ma di sicuro vi farà riflettere, per questo vi consiglio di leggerlo e non spezzare quella speranza con il quale Michela Murgia ha scritto questo libro: “Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un’ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno.”
G. S.
V A Ling
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