“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita”
Dante, Canto I
Buio. Cammina. Un passo, due passi. Inciampa, non veda nulla. Buio. Sente intorno a sé movimenti, vibrazioni. Le fronde degli alberi sbattono violentemente tra loro con un rumore sordo, un ticchettio dato da due o più rami secchi che si scontrano. Non ci sono foglie, ma la corteccia morta non lascia comunque filtrare nemmeno un poco di tutta la luce che il sole sembrerebbe trattenere per sé solo. Ogni colore, dal più scuro al più chiaro, viene inghiottito da quel luogo di morte. Solo uno risalta. La sua veste brilla, come se avesse conservato tutti i raggi del sole fiorentino con l’apposito scopo di liberarli in quel cimitero naturale. Eppure a lui non serve. La vista gli è completamente oscurata dal peccato e perfino i suoi pensieri sono avvolti da quella nebbia che lo accompagnava da ormai giorni. Cammina. Un passo, due passi. Inciampa. Non c’è brina sull’erba che calpesta, sembrerebbe che non ci sia nemmeno erba sul terreno che calpesta. Pietre aguzze rendono ogni suo passo un intero pellegrinaggio, eppure non sarà certo questo a purificarlo. Cammina. Un passo, due passi, tre passi. Quel velo scompare tutto d’un tratto dai suoi occhi, proprio da quegli occhi che ora gli bruciano, che sembrano diventar polvere ora che finalmente possono tornare a fare ciò per cui sono stati creati. Potremmo dire che solo i braccianti, i pescatori e i pastori potrebbero comprendere a fondo il valore della luce, ma di certo non uno come lui, un uomo la cui maggior parte della vita è illuminata dalla debole fiamma di una candela, e a cui capita di scorgere il sole solo la domenica andando a rendere omaggio all’Onnipotente. Ma adesso lo capiva, capiva il valore di ogni singolo raggio di sole che gli veniva donato dal Dio che tanto venerava e verso al quale molti torti aveva compiuto. I ciottoli appuntiti che fino ad ora aveva pestato e sui quali aveva penato si arrotondavano sempre più, come fossero stati attraversati da milioni di piedi che mano mano se ne portavano via dei pezzi. La stradina ora saliva, ma non era più un grosso problema. La vista è tornata, gli odori sono ben diversi da quel fetente sentore di putrefatto che lo aveva accompagnato per il tragitto fin lì. La salita leggera è volta alla cima di un colle verde, ma tanto verde da sembrar ricoperto di grano non maturo. L’erba alta si muove leggermente al vento, e l’effetto creato ricorda il mare. Ma lui non ci fa nemmeno caso, la Toscana è la sua terra, e di colline, di grano, di erba che si muove ne ha gli archivi pieni. Eppure adesso guarda, osserva. Non sembra più solo il vento a dettar la rotta di quelle onde color speranza. Tre scie si avvicinano a lui da tre punti diversi e per tre attimi ha provato tre volte il senso di terrore vissuto nella Selva. Le tre scie viaggiano rapide e geometricamente perfette, fino quando da quel mare leggermente mosso spuntano tre musi animali, feroci, affamati, assetati. Lui sobbalza, pur non violando mai quel codice di freddezza ed eleganza insegnata lui dal contesto borghese della sua città. Difficile descrivere le tre fiere, contraddizioni fatte belve, nomi assenti da ogni manoscritto reperibile dai monaci, pellicce folte e brillanti, ma allo stesso tempo maltrattate, sporche e distribuite a chiazze, fisici impeccabilmente agili e snelli, ma contemporaneamente smunti e anoressici. Attraenti, spaventose, eleganti e rozze allo stesso tempo. Sembrano chiamarlo a loro con lo sguardo. Per la seconda volta la sua mente si annebbia. Cammina, un passo, due passi, si ferma. Non vuole farsi sbranare. Sa già di essere stato divorato da quelle bestie, più e più volte da quando l’infanzia e la relativa innocenza lo avevano abbandonato. Sotto il copricapo rosso e la chioma argentea le sue meningi si spremono e cercano di combattere il vuoto che gli si sta nuovamente insinuando nel capo. Senza accorgersene si sta inginocchiando. Le sue membra si contorcono al limite delle capacità umane, ma il suo volto è fermo, privo di espressioni, sensi e quasi inghiottito dal nulla. La geometria delle fiere si fa sempre più complessa. Nemmeno una goccia di saliva è presente nella loro bocca, solo sangue, il sangue di tutte le vittime che si erano portate con loro nelle sudice tane. E poi di nuovo luce, ma questa volta non è Elio a fare tutto il lavoro. Le pupille tornano ad accendersi, le membra a rilassarsi, le meningi a funzionare. Quella fiaccola si affievolisce e dall’aura divina spunta un uomo, un uomo più morto che vivo, ma vivo al tal punto da non parer morto. Quei mostri, ancor abbagliati, reputano la fuga come la miglior ipotesi, e il prato torna ad essere mare. Lui lo conosce. Aveva letto di lui e ciò che lui aveva scritto. Conosce bene quel viaggio, quella storia. Enea, il giovane troiano che aveva fatto di Roma la sua nuova Ilio. A dire il vero lui non solo conosce ciò che quell’uomo aveva composto, lui lo venera. Ammira le sue doti e la saggezza, e non c’è stato dunque bisogno di spiegazioni per fargli capire ch’egli sarebbe stato la sua guida fin dove avrebbe potuto accompagnarlo e per quale motivo.
Dante Canto III
I due camminano da molto e senza scambiarsi una parola. Ciò non vuol dire che la loro comunicazione sia assente, no, loro discutono, eccome se discutono, ma lo fanno a sguardi, con cenni leggeri e occhiate, quasi come se si leggessero nel pensiero. Il maestro ha gli occhi ricolmi di lacrime omesse, d'altronde al posto da dove viene mai ci si potrà abituare. Muove le labbra secche con molta calma, non distogliendo mai l’attenzione dall’accompagnato che lo segue con zelo. Lui non ha fatica a capire ciò che il maestro gli sta rivelando, come per esempio la ragione del viaggio (che a dir la verità lui già aveva compreso), oppure chi gli avesse mandato quell’anima in suo soccorso. Procedono lenti, entrambi camminando, eppure il morto cammina tanto soave da dare l’impressione di fluttuare. Ma lui non è un fantasma, non è immateriale, costui è e non è allo stesso tempo. Ad un certo punto la marcia si ferma. Alzano entrambi gli occhi, prima il saggio e poi l’allievo. Una parete di pietra si innalza proprio davanti a loro, e insieme ad essa una porta di dimensioni inenarrabili. Questa è nera, scolpita e presenta altorilievi infernali. Demoni, dannati, serpi e corpi mutilati sporgono in tutta loro maestosità di pietra, ed è difficile stabilire se essi si muovono o no. “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. Non è una semplice incisione. Ognuna di queste parole riecheggia per sempre nella mente di chi la legge, o meglio, di chi legge e sarà destinato a rimanere ove l’entrata conduce. Non è il suo caso. Non è scritto e mai lo sarà che lui sarà imprigionato in quel luogo, e ne avrà molte conferme nel suo viaggio, pur avendole già nel suo cuore. C’è silenzio. Troppo silenzio. Sia uno che l’altro sanno che quest’assenza di rumori non gli apparterrà più per moltissimo tempo, ma allo stesso tempo sanno che è giusto così. Solo lui chiude gli occhi, non la sua guida. Entrano. Hanno attraversato la soglia da solo pochi attimi, ma la quiete è già un antichissimo ricordo. Fa caldo, a dire il vero si soffoca, ma non è il bollore il problema, o al meno non il più importante. Orde di anime nude affollano quel luogo, urlano, piangono e si compiangono correndo dietro ad uno stendardo e venendo punti in continuazione dalle vespe a dai loro simili. Non essere vissuti né nel bene né nel male, non essere mai riusciti a scegliere il lato da cui schierarsi, non aver mai dedicato un ideale alla propria vita, questa è la loro pena. Ma non solo loro si trovano in quel posto maledetto. Lui vede altri che furono uomini e donne e interroga assiduamente il maestro con uno sguardo pungente e curioso, quasi infantile, come quello che usava da giovinotto per convincere quello strozzino di suo padre a farlo uscire e svagare un po’. Ma la guida non è ora disponibile a spiegargli cose che il tempo stesso gli avrebbe mostrato, e con un’occhiata severa lo fa piangere dalla vergogna. I passi tornano a pesare come lo facevano sulle pietre appuntite della selva, ma ora al posto del grido degli uccelli del malaugurio riecheggiano i pianti di dolore di molti poveri dannati. Lui tiene lo sguardo basso, ancora umiliato, e solo lo strattone potente del suo mentore gli impediscono di cadere distrattamente nel fiume. Basta uno sguardo. Non lo aveva mai visto, ma ne aveva sentito spesso parlare e altrettante volte ne aveva letto. Acheronte, questo è, fu e sempre sarà il suo nome. Le sue acque sembrano non bagnare neppure la terra rossa su cui loro marciano, e di sicuro non appaiono del colore del porto. Sono verdastre e marroncine, sono tanto calde da creare bolle in superficie e nuvole di gas verde fuoriescono da esse ad ogni scoppio. È chiaro che la barchetta del traghettatore non sia di legno comune, nessun albero creato dalla natura terrena potrebbe mai resistere a quel miscuglio di magma e putrefazione. Ma la barca continua a fare avanti ed indietro da un argine all’altro , così come il suo nocchiere che, sfruttando i suoi remi sia come leva che come frusta, conduce le anime dei defunti attraverso l’acqua e le fa scendere e salire menandole senza pietà. È conosciuto in tutto il mondo conosciuto come Caronte, un uomo (anche se così non si potrebbe definire) alto, vecchio, brulicante di peli crespi e bianchi, come la sua barba e i suoi capelli malcurati. Indossa solo uno straccio per coprirsi l’inguine, e le molte bruciature e lo stato pessimo di quella che una volta poteva essere chiamata pelle mostrano con chiarezza gli effetti del contatto con il fiume. Non è compito del nocchiere stabilire chi dovrà andare e dove, a quello ci penseranno altri, e si limita dunque a bastonare a caricare i suoi passeggeri. Ma persino una mente poco allenata come la sua non fatica a capire che quel visitatore non è destinato all’inferno, e con un fermo movimento del remo gli fa capire di doversene andare. Ma la guida non si fa di sicuro intimorire da quell’essere, e i suoi semplici occhi bastano a intimorirlo e a permettergli il passaggio.
L. M.
V A Ginn.
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