‘’Dalla finestra’’
Ore 18,00
Osservo le nuvole che si tingono
di giallo, mentre il cielo fuori dalla finestra trascolora. Un altro giorno che
ci lascia, proprio dietro la porta di casa, scivola via senza chiedere più
niente. Mi chiedo se quel cielo trasparente sa che lo osserviamo, in migliaia
ogni sera, seduti vicino alle finestre dei nostri appartamenti.
Vedo dall’altra parte della
strada il vecchio cinema ormai chiuso, le vetrine polverose riflettono i raggi
che le colpiscono: non si direbbe, immerso in quella luce, che sia chiuso ormai
da cinque anni e che le locandine appese all’esterno pubblicizzino film che
ormai la critica ha dimenticato. Poco più in là nella strada Mara la fioraia
sta chiudendo il negozio: la vedo sempre ritornare a casa con un mazzo di fiori
avanzati dalla giornata, mi ha detto una volta che le sembra la facciano
sentire meno sola. Di fianco alla mia finestra, c’è Carlo, che sporge le sue
piccole mani fra le sbarre del balcone di ferro battuto: sembra quasi voglia
catturare il sole fra le sue dita da bambino e pare esserci quasi riuscito,
quando sua madre se ne accorge e lo prende in braccio “Te l’ho detto mille
volte che è pericoloso sporgersi!” lo riprende la sua voce, prima che
spariscano entrambi all’interno. I più temerari si arrischiano ad apparecchiare
fuori: un acciottolio di stoviglie risuona dal quarto piano, e pur senza
vederlo sono sicura che il tavolo verrà apparecchiato in modo da guardare in
faccia il sole, proprio come piace fare a Enrico e Rosa: la coppia di artisti
un po’ svagati, ormai anziani, che da decenni occupa l’appartamento sotto al
mio.
L’atmosfera sembra estiva,
nonostante siano appena i primi di
aprile e la sera si dorma ancora con la coperta pesante: tutti paiono
desiderare che l’estate arrivi prima del tempo. Dall’alto del mio appartamento
osservo tutti: li scorgo uno ad uno, osservo quasi di nascosto le loro vite
quotidiane, incorniciate nei riquadri delle finestre. C’è la vecchia signora
Marini, che non esce più da quando suo marito è morto a maggio dell’anno
scorso; ogni tanto si affaccia alla finestra, ma non pare più interessata a ciò
che avviene nel mondo esterno. All’opposto di lei c’è Guido, uno studente
universitario:aveva affittato un appartamento qui per poter frequentare Lettere,
lontano da casa, e ora è chiuso qui, da solo, ancora in quarantena dopo mesi di
positività al Covid. Tutti a quest’ora sono nelle loro case, appena rientrati
dopo una giornata di lavoro oppure dopo ore trascinate nella noia, confinati
fra le proprie mura. Vorrebbero tutti uscire, divertirsi e riversarsi nelle
strade del centro: tutti tranne me. Da anni non esco di casa, non ricordo più
nemmeno la sensazione di passeggiare per i viali, entrare nei negozi, o
prendere la metropolitana. Quest’ultima idea mi riporta immediatamente
indietro, al giorno in cui l’ho presa l’ultima volta: schiacciata fra le
persone che affollavano il vagone avevo sentito il panico pervadere ogni
centimetro del mio corpo, mi sentivo in trappola, come un animale in pericolo,
e la mia testa gridava solo di andarmene. Arrivata a casa mi ero chiusa la
porta alle spalle: ero al sicuro. Nei giorni successivi mi era capitato sempre
più spesso -disturbo di ansia sociale- aveva sentenziato il dottore. Così a
poco a poco avevo iniziato ad evitare ogni situazione che comportasse l’uscire,
incontrare persone. La mia casa era diventata il mio rifugio e per anni mi era
andato bene così, non mi mancava il mondo esterno. Ma stasera, affacciata al
mio balcone, con tante persone intorno a me, mi capita ciò che non provavo da
anni: il desiderio, seppure fugace, di stare in mezzo agli altri.
Un tonfo improvviso. Ai miei
piedi compare una massa voluminosa, che osservando da più vicino riconosco
essere un cane di peluche, a macchie bianche e nere. Lo prendo in mano e subito
scoppia un pianto improvviso alla mia sinistra: è Carlo, il figlio dei vicini
che, dopo averlo tirato per gioco, ora piange e lo rivuole. Valuto le opzioni:
potrei tirarglielo indietro, ma diffido della distanza e della mia mira, oppure
potrei fingere che non sia accaduto niente, rientrare e dimenticarmene. Il
pianto cresce di intensità mentre il cuore mi martella nel petto: devo uscire,
suonare e restituirlo. Tre azioni semplici all’apparenza, ma che mi paiono
insormontabili. -Che potrebbe succedere?- mi ritrovo a pensare, mentre mi
obbligo a mettere una mano sulla maniglia, uscire dalla porta e suonare. La
porta si apre lentamente, mentre il sangue rimbomba nelle mie orecchie, le
gambe mi cedono e non sono distante nemmeno tre passi dalla porta: forse farei
meglio a rientrare. Mentre sto già tornando sui miei passi la porta si apre,
sono incastrata.
Ore 21,00
Seduta su una sedia di casa Romano non mi capacito di come
io sia rimasta qui fino ad ora. È successo tutto in fretta: ho suonato, mi
hanno invitato ad entrare, abbiamo parlato e si è fatto tardi, mi hanno
addirittura chiesto di fermarmi a cena. Tutta la mia paura, di fronte alla
gentilezza dei coniugi Romano, è svanita a poco a poco; all’improvviso
desideravo quel contatto umano, parlare, giocare addirittura con Carlo, che mi
ha preso in simpatia da quando gli ho ridato il suo amato pupazzo. Dalla
finestra del salotto di questa casa così accogliente riesco a scorgere tutte le
case che ho sempre guardato barricata dal mio balcone, piccole finestre
illuminate, che ora non mi spaventano più: sono sempre loro, uguali a quelle
che ho osservato per mesi, anni...ma ora la prospettiva è cambiata.
E. Boggetti, IIIB Liceo Classico
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