Con il termine “revenge porn” – letteralmente “vendetta porno” – si indica la condivisione illecita e senza consenso da parte della persona ritratta di immagini e/o video intimi. Spesso e volentieri, purtroppo, l’autore della condivisione stessa è un coniuge, un compagno o un ex fidanzato che, per vendicarsi di una relazione finita semplicemente dell’altra persona pubblica in rete materiale intimo di quest’ultima.
Nella maggior parte dei casi, le vittime sono donne e il fenomeno è sempre in aumento: in una ricerca a campione svoltasi circa un annetto fa, su 1600 donne il 61% dichiara di essersi scattata delle foto intime e di averle condivise con qualcuno, il 23% di essere stata vittima di revenge porn.
Complici anche la diffusione di social network e l’aumento del tempo che si trascorre su essi, il revenge porn sta prendendo piede sempre di più, tanto che sta sfociando in casi sempre più gravi, come quelli che non hanno la vendetta come finalità, riconducibili a fenomeni come la pornografia non consensuale – “Non Consensual Pornography” (NCP), che riguarda vittime stupro, sia uomini che donne – e anche la pedopornografia, con la conseguente creazione di vere e proprie chat, come i gruppi Telegram, dove le vittime vengono trattate come vera e propria merce di scambio.
Purtroppo, nonostante ormai il fenomeno sia ben conosciuto, non tutti capiscono la natura ed i “veri” colpevoli del revenge porn. Una buona parte delle persone, infatti, per quanto riconosca il revenge porn come reato, ritiene che parte della colpa sia anche della vittima stessa.
“Bisogna dire che un po’ se l’è cercata, non doveva fare quelle foto intime.”
Certo, non è colpa di chi ha diffuso dei materiali intimi senza consenso dell’altra persona, ma solo di quest’ultima, perché il materiale intimo è suo e la riguarda in prima persona.
Nel 2016, una ragazza napoletana, Tiziana Cantone, si tolse la vita dopo che i suoi filmati intimi con l’ex fidanzato furono fatti girare in rete; all’epoca, non c’era ancora la legge contro il revenge porn.
A Torino, nel 2018, una maestra d’asilo venne licenziata dalla preside della scuola a seguito della diffusione di immagini e video privati messi in circolazione dal suo ex compagno; la mamma di una sua alunna, trovati i video sul telefono del marito, li inoltrò ad alcune sue amiche. La preside di questa scuola è stata condannata ad un anno e un mese di reclusione per violenza privata e diffamazione, la madre dell’alunna a 12 mesi per tentata violenza privata e violazione del codice sulla privacy e la giovane maestra ha ottenuto il diritto ad un risarcimento.
Nessuna di queste due ragazze, donne – e come loro, tante altre – ha alcuna colpa e forse è arrivato il momento che tutti lo capiscano, anziché giudicare e puntare il dito contro. La colpa è solo e soltanto di chi diffonde materiali intimi senza consenso, per divertimento o, peggio, per vendetta.
S. F.
III A Class.
Immagine linkata al sito d'origine.
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