Quando gli uomini si resero conto della mortalità della vita, e quindi della sua insignificanza rispetto all’eternità dell’universo in cui vivono, incominciarono a fasciarsi la testa e porsi le domande che, almeno una volta, ognuno di noi si è fatto. Come: “Perché devo morire?” “Perché le persone a cui tengo di più se ne vanno?” “Perché devo soffrire così tanto?” L’umanità, con l’aiuto della filosofia, nel corso del tempo è ricorsa a varie risposte per sollevare questo peso che grava giornalmente sulle nostre menti e sui nostri cuori: l’essere e il non essere, il Quadrifarmaco e Dio (il quale è ancora molto “popolare”). Dopo questa rapida introduzione al tema che tratterò in questo breve, e spero piacevole, articolo, vorrei ripercorrere la visione della morte dall’antica Grecia fino ai giorni nostri, soffermandomi sui passaggi che fecero da mattoni per edificare il pensiero moderno. Come prima cosa, sappiamo che le radici della filosofia hanno origine in Grecia, dove nacque grazie al filosofo Talete.Il primo pensatore che andremo ad analizzare è Parmenide di Elea. Parmenide è il padre dell’ontologia (la scienza che studia l’essere) e quindi uno dei primi che introduce una parvenza di risposta sul tema della morte, con la sua teoria dell’essere e del non essere. Nel poema “Sulla Natura” Parmenide racchiude il suo pensiero: l’essere esiste, il non essere non esiste; con ciò la nascita (passare dal non esistere all’esistere) non può avvenire e lo stesso è per la morte (passare dall’esistere al non esistere). Per molti anni, innumerevoli filosofi hanno dovuto fare i conti con questo ragionamento logico-linguistico. Epicuro formula il “Quadrifarmaco”, cioè “la medicina leva turbamenti”. In che cosa consiste questa medicina? Presenta 4 funzioni, ma parleremo solo della seconda e della terza. Per primo partiamo dalla seconda, Epicuro ci dice: “Abituati a pensare che nulla è per noi la morte poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione e la morte è privazione di questa. […] Ciò che infatti è presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali. La morte non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non ci siamo più.” Nella terza invece egli illustra due tipi di dolore: il dolore fisico e quello morale. Il dolore fisico è o facilmente sopportabile, o se è forte c’è la medicina, il dolore morale si può curare con la filosofia. Quindi con questo farmaco, cosa vuol dirci Epicuro? La paura della morte è solo la paura dell’idea di morte che abbiamo, del dolore fisico; non ha senso star male per qualcosa che non è ancora avvenuto. Come abbiamo appena visto, la visione epicurea è, dunque, molto più positiva nei riguardi della morte, anzi la argina a un semplice timore irreale. Ma prima di trarre delle conclusioni, andiamo avanti nel tempo e giungiamo all’ultimo filosofo di cui tratteremo: Seneca. Seneca riduce la morte ad una liberazione da ogni sofferenza: la morte non è né buona né cattiva, è "nulla" dal momento che riduce al nulla ogni cosa. Infatti da stoico com’era e portavoce della libertà di pensiero, egli si suicidò piuttosto di andare contro ai suoi ideali. Fino all’avvento del cristianesimo, la morte ha una connotazione positiva, e soprattutto la vita viene vissuta nella sua pienezza. Morire è un avvenimento inevitabile, ma non è sperato, come sarà invece nel Medioevo. Il Medioevo è il periodo della paura della morte per antonomasia. La religione cristiana getta un'aura di peccato sopra le teste dei fedeli: se cadete nel peccato, andrete all’inferno! La Terra è il luogo del peccato. La morte è salvezza e la vita è tentazione. Dio si è sacrificato per redimerci, per darci la possibilità della grazia divina e quando qualcuno muore bisogna metterlo nei cimiteri, andare lì e pregare per lui e per salvarlo dalle sue pene. Fortunatamente questo terrore religioso termina con l’Umanesimo, che porta una ventata di amore per l'esistenza. Gli umanisti sono coscienti della morte, ma almeno si ritorna allo studio della natura, delle scienze, dell’uomo. Durante questo periodo, il personaggio che ci parla della morte è Lorenzo il Magnifico. Il Magnifico ci descrive il sentimento di tristezza riguardo allo scorrere del tempo che pervade le persone a quei tempi. “Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Lorenzo ci introduce ai due nuovi pensieri sulla morte: carpe diem (cogli l’attimo) e memento mori (ricordati che morirai). E questi “mantra” li riprenderà cento anni dopo, nel tardo rinascimento, l’ultimo filosofo di cui tratterò: Blaise Pascal. Pascal introduce il concetto filosofico-religioso di “divertissement”: scappare dalle domande esistenziali riempiendosi di impegni per non pensare ai propri problemi. Questo “divertimento” (fuga) per il filosofo non è positivo, è la piaga del mondo perché ciò ci discosta da Dio. Pascal vuole dirci “Memento Mori”, ma per ricordarci che soltanto accettando la piccolezza delle nostre vite rispetto a Dio potremmo davvero raggiungere la felicità e la Grazia. E noi, che insegnamento possiamo trarre dalla nostra storia recente? Soprattutto in questo periodo di pandemia, la nostra ossessione per la morte è sempre più andata a peggiorare. Abbiamo la paura dentro le nostre viscere, abbiamo il terrore della malattia, del dolore; ed è giusto, è giusto aver timore, ma questo timore ci sta lasciando vivere? Stiamo tornando in un Medioevo Moderno? Non ho scritto per dare risposte, ma per far riflettere (ciò che dovrebbe fare la filosofia). Forse la concezione di dotta ignoranza (accettare che non possiamo fermare né comprendere la morte e cercare di andare avanti coscienti di questa impotenza) di Cusano si potrebbe applicare anche qui.
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