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RITORNO A CASA

 

“Siamo in arrivo a Pallareto”, la voce metallica dell’altoparlante mi riscuote dal torpore in cui ero precipitato circa tre stazioni prima. Tiro giù il trolley dalla cappelliera e recupero la mia cartella di pelle dal sedile accanto, poi mi avvio verso l’uscita.

Appena sceso mi guardo intorno e mi investe il ricordo delle mie estati passate in questo paesino a casa di nonno Dario, la spensieratezza di quell’epoca  sembra ormai lontanissima, così come i giochi nella campagna assolata, che mi sembrava non finire mai. Questo ricordo stride rumorosamente con il paesaggio che mi si prospetta davanti: vecchie case con le imposte già chiuse, nonostante siano appena le cinque del pomeriggio, immerse nella nebbia fredda e sgradevole di metà Novembre. Più in là una strada, che pare finire in mezzo al nulla, ma se non ricordo male è proprio lì che devo arrivare, a quella  casa rossiccia, che svetta su quello che pare un bel mare di niente. Ironicamente anche io mi sento così: un vecchio rudere abbandonato a sé stesso, eterno assistente universitario che invece di diventare professore viene licenziato. “Taglio fondi” è stata questa l’insindacabile sentenza del rettore, che quasi come un mantra mi ha accompagnato nell’ultimo periodo; la liquidazione non mi avrebbe permesso di pagare l’affitto per il mio appartamento in centro città per molto, che fare? Dal nulla questa casa, ereditata un paio d’anni fa e mai più considerata, mi si è affacciata alla mente. Ho fatto le valigie, sono partito, almeno per un po’.

Con le scarpe ormai infangate raggiungo finalmente l’uscio di casa, lo apro, entro. Dentro quello che mi colpisce subito, più che la polvere alta posata sugli oggetti familiari, è il freddo pungente. Dopo due ore passate a ripulire non ho ancora idea di come si scaldi questo posto: i termosifoni restano ostinatamente gelati, nonostante i miei sforzi per aprirli. Non oso confrontarmi con i fornelli, stremato dal viaggio e dalla fatica mi getto sul letto che era di mio nonno e mi addormento. Ovviamente mi rigiro fino al mattino fra quelle lenzuola polverose e gelate, che non bastano a ripararmi dalla temperatura minima che c’è fuori. Al mattino, ancora intontito dall’insonnia e dal freddo vado in bagno, nella speranza di farmi una doccia: ovviamente l’acqua calda non c’è. Vorrei farmi almeno un caffè ma il gas è chiuso; è troppo, decido di uscire ed andare a chiedere a qualcuno del posto: sicuramente c’è chi ne saprà più di me. Faccio pochi metri fuori dal cancello e mi imbatto in un ragazzo, avrà la metà dei miei anni ed è vestito in un modo parecchio strano, quasi antiquato; nell’insieme non è sgradevole, anzi mi dà una certa sensazione di familiarità. Gli chiedo se per caso vive nei dintorni e se sa come far funzionare la mia caldaia. Subito sorride e risponde che sicuramente è uguale alla sua, si offre di darle un’occhiata. Con una sicurezza che mi lascia quasi stordito si dirige all’interno del cortile, pare sapere esattamente dove andare, meglio di me.

Dopo poco la caldaia è a posto, gli propongo di fermarsi per pranzo, ma lui rifiuta, dicendo che deve finire dei lavori; un attimo dopo è sparito dalla mia vista. Non mi dispiace in realtà cucinare solo per me, ma mi manca tutto l’occorrente, così decido di andare in paese.

La bottega dove entro è accogliente, tutta in legno, e c’è una signora anziana dietro la cassa. Mentre le porgo la mia spesa le racconto delle mie disavventure della sera precedente e di come quel ragazzo gentile le abbia risolte prontamente.  Si stupisce del mio racconto, mi dice che non ricordava alcun giovane che vivesse da quelle parti: sarà sicuramente il nipote di qualcuno. Annuisco, pago ed esco. In cinque minuti di cammino spedito sono di nuovo davanti a casa, ma non sono solo: il ragazzo di prima è appoggiato al cancello con aria sorniona mentre tiene in mano una cassetta di mele. “Ho pensato che potessero farti piacere, sono molto dolci”.  Ancora una volta mi stupisco della sua gentilezza, sembra ci tenga ad instaurare dei rapporti di buon vicinato. Più tardi, a fine pasto ne assaggio una: sembrano proprio quelle che mio nonno coltivava quando ero bambino, quelle rosse che crescevano sul melo qui dietro.

I giorni passano e i miei incontri più meno casuali con il mio originale vicino si susseguono regolari. Mi trovo bene a parlare con lui, le conversazioni sono piacevoli: io gli racconto dei miei trascorsi infelici e lui ricambia parlandomi del posto; sa moltissime cose.

Una delle tante sere, è ormai dicembre inoltrato, mi trovo da solo nella cucina di casa: sono passati due mesi dal giorno in cui mi hanno licenziato e inizio a sentire l’incertezza per l’avvenire. Che cosa farò quando i miei soldi scarseggeranno? Come farò ormai sulla soglia dei quarantacinque anni a trovare un altro lavoro, ad essere di nuovo realizzato?  Un bussare sommesso mi riporta alla realtà: è il mio amico che pare aver sentito i miei pensieri cupi. Desideroso di non restare da solo lo prego di fermarsi. Stranamente acconsente, così ceniamo insieme e gli parlo delle mie preoccupazioni.

 “Sai che stanno cercando un bibliotecario in comune? Quello anziano  andato in pensione, potresti provare a vedere se ti piace” mi dice. “Non mi prenderanno mai, non ho le competenze adatte e non conosco nessuno qui, a parte te”, gli rispondo abbattuto.  “Ti dico, fidati di me, se domani ti presenti alle nove in comune e chiedi del signor Andrea per fare il colloquio il posto sarà tuo, vedrai”. Di nuovo quella strana sensazione, più forte che mai.

Come in trance il giorno successivo affronto il colloquio: senza nemmeno rendermene conto il posto è mio. Dopo esserci accordati il signor Andrea, leggendo il mio cognome esclama: “Tu sei il nipote di Dario! Lui ed io eravamo al servizio militare insieme. Così facendo tira fuori una foto color sgualcita da un cassetto della scrivania: accanto a una sua versione di almeno cinquant’anni più giovane scorgo un viso familiare. E’ il mio misterioso vicino di casa; me lo indica tutto contento. “Eccolo qui Dario, guarda come eravamo giovani, avremo avuto vent’anni al massimo…” Continua a parlare ma io non lo sento più, tutto ciò che riesco a focalizzare è quel volto allegro e ormai familiare che pare guardarmi dalla fotografia: quello di mio nonno.

                                                                                                                       E. BOGGETTI, IIIB

                                                                                                                        


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