MILANO DA BERE
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Seduto dentro il bar Biagio mischia le carte. La luce fioca
della lampadina alle sue spalle illumina appena le picche e i quadri, ma lui
continua a darle le spalle, incurante. Voltarsi significherebbe vedere le
quattro file di tavoli solitari, con le sedie a due a due che li circondano,
tutte desolatamente vuote. Le aveva volute Lina, la sua Evelina, quelle sedie;
anni e anni prima, quando l’attività era appena stata avviata. Quanto aveva
insistito per quelle sedie:-Non vorrai mica che si vengano a sedere su delle
sedie di plastica!-,gli aveva ripetuto infinite volte, sussurrando quella
parola come si potrebbe fare con il nome di una creatura mostruosa, che
disgusta e terrorizza allo stesso tempo. In fondo quel bar era stato il sogno
di entrambi, realizzato con fatica e i risparmi di una vita, il loro piccolo
pezzo di mondo che si apriva alle persone, in via Armorari numero 7. Certo, non
uno dei bar della Galleria, ma a loro era sempre andato bene così. Per anni era
stato un luogo di ritrovo frequentato, persino famoso nella zona, che si
adeguava alla Milano da bere ogni giorno dalle sei del pomeriggio in poi, ma
prosperava soprattutto grazie ai caffè
che prendevano i lavoratori del mattino. Un luogo di passaggio, vicino alla
fermata del tram 27, che si popolava soprattutto nei lunghi giorni di pioggia,
in cui da un caffè preso per scaldarsi nascevano incontri, discussioni
politiche oppure lunghissimi tornei di briscola. Ma ora tutto questo era
finito: quello che non aveva fatto la crisi del 2008, era infine stato compiuto
dal 2020, appena un anno dopo che Lina era scomparsa. I lavori di manutenzione delle tubature
ancora da finire di pagare, la clientela che era andata sempre più diradandosi
e infine la paura dei suoi figli, che vedevano nel contatto con gli eventuali
avventori un pericoloso rischio di contagio: tutto aveva contribuito a rendere
inevitabile ciò che lui aveva sempre voluto rimandare nonostante l’età ormai
avanzata. Tutto d’un tratto Biagio si era sentito stanco, quella stanchezza di
cui non ci si rende conto, che si percepisce la sera, quando finalmente ci si
siede dopo aver camminato tutto il giorno: così, aveva accettato senza
particolare resistenza di chiudere quel bar che aveva fatto parte per oltre
quarant’anni della sua vita. Ma ora alle sei di sera di quella giornata piovosa, seduto da solo in
quella stanza silenziosa, Biagio avrebbe dato tutto per poter riaprire anche
solo un altro giorno. Stava lì nel bar chiuso, a mischiare e rimischiare le
carte, come se quel gioco solitario avesse potuto far rivivere gli anni passati
fra quelle mura, che in poco tempo - questione di settimane gli avevano detto -
sarebbero state vendute a un acquirente interessato. Ma quel bar era suo, suo e
di tutti quelli che vi avevano fatto colazione nelle mattine di scuola, di
quelli che avevano comprato i tramezzini fatti da Lina per il pranzo, di tutti
quelli che era venuti negli anni per assaggiare il suo spritz, fatto con la
ricetta che custodiva gelosamente da sempre. Biagio sapeva che avevano
condiviso molto più di qualche consumazione, e lasciare questo posto ad un
estraneo lo riempiva di amarezza. Un bussare alla finestra. Dei capelli
scompigliati e paio di occhi vivaci che chiedevano a gran voce: -Si può? Piove
a dirotto!- Un attimo dopo, uno sconosciuto, completamente zuppo di pioggia,
era seduto di fronte al lui al tavolino. - Cosa vuoi bere? Se aspetti ti faccio
qualcosa di caldo - disse Biagio ancora una volta, mentre frugava fra i
cassetti di quel bar ormai chiuso, alla ricerca di una bustina di thé
superstite. Lo sconosciuto guardò l’orologio appeso dietro il bancone, segnava
le sei. - Ma no, facciamo che bere due spritz- disse con aria sorniona, mentre
il solitario già diventava una briscola a due.
Elena Boggetti, IIIB Liceo Classico
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