“Sono le 7:00 è ora di cominciare!”.
A questo punto ci starebbe un bel “Mammaaaa, ancora cinque
minuti!”, come da copione. Eppure è solo un vecchio luogo comune; nessuno che
ci conceda più questi beati cinque minuti politici, né tantomeno suona
realistico il lusso utopico che la giornata inizi alle sette. Il che è vero
praticamente per tutti: eppure il terrore della sveglia mattutina non è che il
volto superficiale di un problema ben più radicale.
Il Sig. Rossi (personaggio comune dal nome canonico) -
professione imprenditore - sta leggendo il giornale mattutino, seduto al bar,
sorseggiando il consueto caffè delle 7:30, appena prima di entrare in ufficio. Titolone
a prima pagina: “L’OMS ha riconosciuto e classificato ufficialmente il burn-out
come “sindrome””. Effettivamente ciò che è avvenuto durante la 72° sessione
dell’Assemblea mondiale dell’Organizzazione Mondiale della Salute, tenutasi a
Ginevra tra il 20 e il 27 maggio 2019; ma c’è di più: dopo essersi guadagnato
il titolo di “sindrome legata al lavoro”, il burn-out è stato etichettato come fosse
un barattolo di marmellata con un piccolo codice (QD85) e inserito nel
documento ICD-11 (Classificazione Internazionale delle Malattie), al capitolo:
“Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi
sanitari”.
Secondo Humanitas, un punto di riferimento mondiale per la
ricerca sanitaria, la sindrome (che non corrisponde a “malattia”: ciò vuol dire
che può essere diagnosticata, ma non trattata e curata in modo mirato) da
burn-out è caratterizzata da spossatezza, mancanza di energia, sensazione di
malessere generalizzato che porta malumori e cinismo, riduzione dell’efficacia professionale.
È facile immaginarsi il Sig. Rossi mentre sgrana tanto d’occhi, sentendosi
punto sul vivo dalla diagnosi.
Il modello di vita odierno è improntato a una costante ed
esasperata produttività, il che non suona nuovo alle nostre orecchie: i ritmi
lavorativi sono spossanti, il sovraccarico di lavoro (e di stress, che lo
accompagna a braccetto) ha monopolizzato le vite di tutti, la competizione
individuale (in ogni ambito lavorativo) ha raggiunto la dimensione di una lotta
per la sopravvivenza, i salari spesso inadeguati (se non fortemente
sbilanciati) sono ulteriore motivo di frustrazione e mortificazione personale. La
sveglia non suona più alle 7:00… La sveglia è costante: questo, grazie anche e
soprattutto ai mezzi tecnologici di cui si dispone, che accelerano
incredibilmente i ritmi, ci mantengono in costante attività e reperibilità. Nonostante
i risvolti positivi, quando l’essere sempre connessi induce uno stress mentale
e fisico, la situazione diventa patologica: da cui derivano “nuove” fobie dai
nomi bislacchi, come la “nomofobia” (NO Mobile Phone PhoBIA”), o sindrome da
disconnessione: vere e proprie dipendenze.
I confini tra vita privata e vita professionale sfumano e
diventano inconsistenti: ecco perché la sveglia, che sanciva una distinzione
netta tra le due sfere, in fondo, non ha più molto senso. I tempi interiori,
quelli personali e introspettivi, si perdono di vista troppo spesso. La
dimensione preponderante del lavoro, o meglio della “cultura dell’iperproduttività”,
spinge troppo spesso addirittura a dover fare una scelta: O vita lavorativa O
vita privata (con alcune categorie di lavoratori più colpite di altre, in
questo senso: in primis, ancor oggi, le donne).
I dati statistici fanno emergere una condizione davvero
preoccupante: una recente indagine EU-OSHA (2022) rivela che più di quattro
lavoratori su dieci (44%) affermano che lo stress da lavoro è aumentato a
seguito della pandemia, il 46% dei lavoratori europei si sente esposto al
sovraccarico di lavoro e teme di non avere il tempo di svolgere le mansioni
richieste. Solo in Italia, secondo il Global Workplace Report di GALLUP (2022),
il 60% dei lavoratori ha dichiarato di provare un sentimento di mediocrità e
insoddisfazione legato alla propria occupazione.
Altra dimensione fortemente colpita in questo senso è quella
della scuola: lo studio tende a essere concepito esclusivamente come un utile
dal punto di vista lavorativo, caricandolo dei medesimi ritmi e delle stesse
richieste di prestazione. Caro Sig. Rossi, se vuole avere successo nella vita,
scelga attentamente il suo percorso di studi! Che la porti ad avere una
carriera remunerativa e produttiva: così potrà dirsi pienamente soddisfatto!
Il che può non essere un pensiero sbagliato, ma se diventa
un chiodo fisso, il giovane Sig. Rossi avvertirà una pressione sulle spalle non
da poco. Una condizione che si vede riflessa nel preoccupante numero di suicidi
di studenti universitari; lo stesso che ha portato la giovane studentessa Emma
Ruzzon, Presidentessa del consiglio degli studenti dell’Università di Padova, a
intervenire con un deciso discorso in occasione dell’inaugurazione del nuovo
anno accademico: “Sentiamo il peso di aspettative asfissianti, che non tengono
in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri
modi. […] Con quale coraggio possiamo ascoltare il nostro bisogno umano di
rallentare?”. (link discorso completo: https://youtu.be/5VipzQF_6Gw)
Il burn-out è oggi un problema collettivo, che rende necessario agire sul sistema politico e sociale: si parla tanto di sostenibilità, ma che dire di quella del nostro modello lavorativo?
Per chi fosse interessato ad approfondire, al seguente link
può trovare un articolo molto interessante, nonché principale fonte di
ispirazione per la riflessione che avete appena letto: https://thevision.com/attualita/generazione-burnout-lavoro/
C.B., 5A Scientifico
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