‘’Outro’’
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Ci siamo conosciuti dieci anni fa e da quel momento siamo
stati inseparabili. Ogni giorno, che piovesse il splendesse il sole noi eravamo
insieme. Ricordo tutti pomeriggi che
passavamo qui al Teatro , a provare e riprovare note e stacchi con quella
precisione spasmodica, quasi maniacale che l’ha sempre contraddistinta. Minuti,
ore, poco importava, voleva che tutto suonasse perfetto, fluido, come se quella
cascata di note sgorgasse naturalmente e non fosse il frutto di ore passate ad
esercitarsi. Sere dopo poi, quando tutte le luci si spegnevano e il pubblico si
zittiva, persino le signore pettegole, quelle che venivano a teatro solo per
commentare sottovoce le mises delle altre donne, tacevano e per
due ore si dimenticavano che esistesse un mondo all’infuori da quelle note, un
mondo fatto di salotti, chiacchiere e sottili cattiverie: quasi si pentivano,
come se quella musica, al pari di una voce angelica, fosse scesa dal cielo ad
ordinare loro una redenzione. Era quella la sua vera magia: quella musica che
faceva nascere dentro di sè il desiderio di cambiare, di modificare tutto ciò
che non andava nella propria vita, faceva credere ad ognuno che fosse
possibile, finito lo spettacolo, alzarsi dalle poltroncine ed essere persone
nuove, migliori.
A fine spettacolo, dopo gli applausi, invariabilmente
riceveva bracciate di fiori, rose soprattutto e la vedevo andare via carica di
quei mazzi un po’ imbarazzata, quasi come se li avesse presi senza che
spettassero a lei. Erano molte di più le volte però in cui li lasciava qui,
almeno in parte. Sembrava volesse dirmi che non si prendeva tutto il merito,
che sapeva che senza di me non ce l’avrebbe fatta. La vedevo affannarsi a
riempire d’acqua un vaso preso chissà dove, probabilmente procurato da qualche
addetto alle pulizie molto contrariato, per poi posarlo sulle assi del palcoscenico:
contemplava il risultato vagamente soddisfatta e poi se ne tornava finalmente a
casa. Non sapevo molto di ciò che accadeva a casa sua, non ne parlava mai,
almeno non con me, ma sapevo che non era felice. Ogni giorno arrivava qui, a
Teatro prima degli altri e si sedeva subito a provare, come se suonare fosse un
modo per schermarsi dai suoi stessi pensieri. Lo sentivo dal modo in cui
toccava i tasti, con le dita che parevano cadere su ogni nota per poi
riprendersi un attimo prima, ritrarsi e gettarsi in quella successiva. Non
avevo mai sentito nessuno suonare così, non con me: il suo era un talento fuori
dal comune, più vicino a quello di Bach e Schumann piuttosto che ad un
qualsiasi grande musicista contemporaneo. Tutti lo sapevano e glielo ripetevano
sempre, ma a lei pareva non importare, scuoteva la testa e diceva, riferendosi
a me:- È merito suo senza di lui non sarei in grado di fare niente-,
accompagnando il tutto con un colpetto. Io a quelle parole mi inorgoglivo, ero
fiero di essere parte di quella magia che sapeva creare. Ma un giorno, senza
una spiegazione, non si presentò. Vidi molte persone che si agitavano, ma non
seppi mai che cosa fosse accaduto: nessuno pensó di dire a me, un semplice
pezzo di plastica e legno, che fine avesse fatto la sua compagna di tanti momenti, e il motivo per
cui non sarebbe mai tornata. Da quel momento così sto qui, dietro le quinte,
coperto da una polvere da cui mi ripara, pieno di fiori ormai sfioriti, solo un
vecchio vaso. Nessuno mi suona più, ormai tutti preferiscono i futuristici
pianoforti moderni, ma mi piace pensare che nessuno sarebbe in grado di far
scivolare fuori da me una cascata perfetta di note, la mia vocazione musicale
si è spenta con lei e non mi resta che qualche fiore secco, un po’ di polvere
ed un pugno di bei ricordi.
E. BOGGETTI, IIIB Liceo Classico
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