‘’Con sincera, spontanea e sollecita collaborazione’’
In occasione della Giornata della Memoria di quest’anno, mi è sembrato opportuno pubblicare in questo spazio anziché un racconto scritto da me, un estratto del brano scritto dal Professor Meni, mio docente di Storia e Filosofia, che ringrazio per la disponibilità. Il racconto è contenuto nel libro redatto in occasione dei 150 anni del Liceo Classico Balbo: ‘’Il nostro futuro ha radici profonde’’ e sono convinta che siano le parole più adatte a raccontare la tragicità degli eventi accaduti in quegli anni, con un’attenzione particolare alla città di Casale Monferrato e al Liceo Balbo.
Elena Boggetti, IIIB Liceo Classico
o
[…]
Allora la guerra è solo “un periodo eccezionale che la scuola si appresta a vivere, mentre l’Italia è in guerra
per l’affermazione dei suoi diritti di grande Nazione e per la creazione di un nuovo ordine
economico, sociale e politico nel mondo” (27 giugno 1940) che si realizzerà, data la fiducia nella
“immancabile vittoria” con la collaborazione di tutti, insegnanti compresi, nell’adempimento del
loro dovere di “illustrare i fini per cui questa guerra si combatte”. (10 dicembre 1940)
Ormai il processo era compiuto. Si poteva dire di essere arrivati alla meta: Nella Scuola fascista non
basta l’insegnante colto; occorre l’apostolo...
Particolari insignificanti? Pensate che io stia divagando? O posso continuare?
Sto solo cercando di mostrare come ci fosse una logica in tutto quanto è accaduto, come una specie
di ordine geometrico sottinteso allo svolgere degli eventi e che lega insieme in modo stretto e
vincolante l’obbligo del saluto fascista nella scuola o l’acquisto dei dischi dei discorsi di Mussolini
con quello che è accaduto in quell’autunno del 1938.
Con le leggi razziali, appunto.
Lo so, vi sembra esagerato quello che affermo. Ma io che ho annunciato giorno per giorno per più
di vent’anni gli ordini impartiti ai ragazzi e ai docenti di questa scuola, sono convinta che ogni cosa
appartiene allo stesso rigoroso ordine geometrico. E se all’inizio appare come un poliedro dalle
mille facce, ricordate no? questo poliedro a poco a poco si trasforma fino a diventare una sfera
perfetta e compiuta dentro la quale convivono come appartenenti ad una stessa famiglia, l’obbligo
del saluto fascista, i dischi di Mussolini e le leggi razziali.
E in quella stessa sfera perfetta e compiuta è naturale come è naturale il risultato di una semplice
espressione matematica, che accada quello che è accaduto a Casale nel febbraio del 1944: quegli
arresti, intendo, e quei treni blindati compiutamente progettati per finire ad Auschwitz.
Ma non tocca a me ricordare una storia nota. Quello che invece vorrei farvi notare, vostro Onore, è la precisione, il rigore, la metodica applicazione.
La sincera, spontanea e sollecita collaborazione. Ecco appunto.
Voglio cercare di farvi capire come è dai particolari che si possa comprendere il tutto.
Dimostrarvi che quando gli uffici demografici diventano “Uffici per la demografia e la razza”, la
meta è stata già raggiunta. Il processo è compiuto. Perché non è sufficiente dimostrare di essere
italiani, fatto di sé normale, non basta nemmeno più dimostrare di essere fascisti, fatto di per sé
anormale – la tessera del partito fascista sostituiva ormai la carta di identità – no, non basta più.
Perché la sfera è perfetta: occorre dimostrare l’appartenenza alla razza ariana.
E non è cosa da poco.
Proviamo a pensare a quanto accade a Raffale Jaffe, allievo di questa nostra scuola, un ragazzino
che ho visto passare davanti a me per giorni e giorni, che ho visto crescere e farsi uomo. E che ho
conosciuto poi come professore di scienze e poi Preside dell’Istituto Magistrale Lanza, quell’Istituto
che “che quasi dal nulla ho portato ad assumere una rara floridezza”, come scrive con amarezza
nel suo testamento.
Personaggio importante per la vita sociale di questa città: uomo di cultura (persino a Parigi hanno conosciuto i suoi studi sul vino) ma anche uomo di mondo e di sport, affabile punto di riferimento
del bar Giappone, dove si ritrovavano gli amici e i tifosi di quella squadra gloriosa che fu lui a
fondare e che vide vincere lo scudetto nel 1914.
Ecco, veniamo a lui. Raffale Jaffe sposa nel 1927, quando ha già 50 anni, una sua collega,
professoressa di canto e di musica, Gina Ceruti, cattolica. Ha due figli, Leone e Clotilde, che come
la loro madre sono battezzati nella fede cattolica. E Raffaele Jaffe si converte al cattolicesimo nel
gennaio del 1937. Per quale motivo? Per amore della moglie e dei figli, sì certo ma anche “per il
desiderio – come scrive nel suo testamento redatto nel 1937 - di dormire il sonno eterno in un luogo
accettabile facilmente ai cari che non vorranno dimenticarmi. La mia sepoltura nel cimitero
israelitico avrebbe praticamente dato l’ostracismo a Gina, Nani e Tilde...”
Gennaio 1937: un anno e 9 mesi prima delle leggi razziali.
Ma questo non gli è sufficiente. Perché arriva il 1938. Perde il lavoro, perde la vita sociale, perde la
salute. Perde anche la pensione e gli amici e gli ex colleghi i quali, “si sono da me allontanati per le
esigenze del momento”.
A Lui sembra di aver perso tutto con leggi razziali: “Malgrado tutto mi sentirei di riprendere anche il mio lavoro che forse mi farebbe dimenticare in arte il male e accrescere il benessere della mia diletta famiglia se un decreto iniquo non mi condannasse all’ozio. Ozio relativo perché mi sono risparmiato per rendermi utile alla casa collaborando con Gina mia e impartendo lezioni. Gina mi perdonerà se in questi ultimi tempi, a causa dello squilibrio morale, il mio carattere si è fatto meno mite” (testamento del 1940).
Sembra che gli crolli il mondo addosso, vero, vostro Onore? Ma non è ancora nulla rispetto a quanto gli accadrà nel 1944.
Arrestato nel febbraio del 1944 da italiani. Detenuto a Casale Monferrato e poi trasferito a Fossoli:
“ti scrivo dalla camera di sicurezza della stazione dove mi trovo pigiato coi casalesi e con quelli portati dai tedeschi da Torino, tra cui anche bambini”. A Fossoli rimane eccezionalmente fino al 30 luglio quando “causa sgombero dal campo partiamo... per ignota destinazione”.
Fate attenzione, vostro Onore: tre puntini e ignota destinazione. Si perché quell’ultima di tante
lettere che scrive all’adorata moglie vi è tutto il dramma di chi deve alludere con tre puntini, data la
sorveglianza e la censura e il divieto esplicito sui fogli cartolina del campo di scriver tra le righe, ad
un destino che ben conosce ma che per tutti è solo un’ignota destinazione:
“Voglia che tu sia sempre la donna forte che ho conosciuto, che ho ammirato adorandola e che è stata per
lunghi anni il faro luminoso della mia esistenza. Non mi dilungo che la piena dei miei pensieri è tale che non
basterebbero molti fogli per contenerla. Mi limito a dirti che se purtroppo la mia salute indipendentemente dal trattamento umano avuto è assai scarsa il morale si mantiene sia pure con un sforzo supremo assai alto”. “Se mi sarà possibile cosa che credo assai difficile ma non impossibile ti invierò mie nuove dalla... nuova destinazione. Intanto spera e prega prega”.
Ed è un dramma amplificato dall’illusione di potercela fare, di poter essere liberato, come alcuni
altri in quel campo, liberato in quanto convertito e per questo sollecita la moglie a inviargli i
documenti del battesimo di tutti, vistati dal Vescovo, e per questo le detta la lettera da inviare al
ministero, e per questo la invita ad essere accorta e a ricorrere ad ogni mezzo utile: “fai la richiesta
dei documenti, fuori Casale, mandando il denaro occorrente”. “Occorre agire rapidamente”.
Qualcuno ha scritto da qualche parte che a differenza degli esseri umani, gli oggetti inanimati non
scompaiono nel nulla. Al più finiscono in polverose soffitte o ammassati tra cataste di altri oggetti,
diventati inutili in lunghi scantinati disabitati, come è toccato in sorte a me finita in uno dei
sotterranei del Regio Liceo Ginnasio, in quella stanza buia che fu il rifugio antiaereo durante la
guerra. Sì, certo, forse è vero. Io che sono stata per un lungo periodo come uno specchio che ha
riflesso mille e mille volti di ragazzi e ragazze ora scomparsi nel nulla, sono ancora qui e posso dire
la mia su un tempo della storia che quei volti ha inghiottito.
Ma c’è qualcosa che non torna in tutto questo. Come un percorso paradossale che la storia compie
per mostrare al mondo la mannaia con cui governa il corso del tempo.
Io che sono un oggetto inanimato fatto di legno e di chiodi e che, come tutti gli oggetti inanimati
fatti di legno e di chiodi, finiscono per essere cenere, quando il legno si fa troppo tarlato e i chiodi
arrugginiti, e diventiamo cenere perché il fuoco è il nostro destino naturale, sono qui a testimoniare
di un tempo e di una storia che ha preso uomini – bambini vecchi, donne non importa – e
all’improvviso li ha fatti cenere, nel fuoco di crematori costruiti con lucida follia da altri uomini
convinti che la cenere fosse per quelli il loro destino naturale.
Penso a Augusta Jarach che come mille altre ragazze è entrata per la prima volta in questa scuola
che era ancora bambina e per prima cosa si è soffermata davanti a me a leggere quelle note
scolastiche che giorno per giorno avrebbe letto come se quelle note fossero musica che scandisce il
passare del tempo che l’avrebbe resa una donna fino a quando di quelle note scolastiche e musicali
ad un tempo, non le sarebbero più servite perché ormai pronta ad entrare nel mondo e a vivere la
propria vita. Fino in fondo.
Augusta Jarach, arrestata a Casale Monferrato nel febbraio del 1944 da italiani. Deportata da
Fossoli il 22.2. uccisa all’arrivo ad Auschwitz il 26.2.1944.
Penso a Raffaele Jaffe ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 6.8.1944.
Penso a tutti gli altri. Ma soprattutto penso a quanto tutto ciò sia avvenuto in modo naturale, in
modo meccanico.
Suonare ai campanelli delle abitazioni, attendere che prendessero le loro valigie, accompagnarle
nelle auto e poi scortarle ai treni.
Ritornare in un successivo momento per confiscare tutti i beni.
Fare l’inventario degli oggetti e delle case da rimettere a disposizione.
Così in modo naturale. Tranquillo. Con sincera, sollecita e spontanea collaborazione.
Non deve stupire il fatto che in questa sfera perfetta e compiuta accanto agli anni di parate e di
sabati fascisti, di lezioni obbligatorie di cultura fascista, anni di impegno meticoloso per la
costruzione di menti votate all’obbedienza, alla convinzione della superiorità razziale dell’uomo
nuovo fascista finalmente forgiato anche grazie alla solerzia della scuola, sia naturale trovarsi le
sedie rovesciate e accuratamente accatastate, le pile di biancheria accuratamente divisa – di qua le lenzuola di là le tovaglie e laggiù gli asciugamani – un mucchio regolare per quelle di lino e
ricamate e da un’altra parte quelle che non possono che diventare stracci – e poi le posate – di qua
tutte le forchette, lì tutti i cucchiai e là tutti i coltelli – e poi le credenze e i letti e gli armadi,
insomma ancora oggetti e oggetti da catalogare, da conservare, da accudire mentre i loro proprietari,
fatti di carne ed ossa, venivano fatti salire sui treni piombati per essere portati in un posto lontano
perché lì diventassero cenere.
E sparissero nel nulla.
Io che sono stata per anni osservatrice obbligata di tutte le disposizioni quotidiane, insignificanti del
regime fascista nella scuola, io che ho assistito allo svolgere tranquillo degli eventi in sé irrilevanti,
io una logica ferrea, un medesimo ordine geometrico, ve la vedo in tutto questo. Perché se non fosse
così non si riuscirebbe a spiegare Sanson Segre, 78 anni, con una gamba amputata per una forma
grave di diabete, preso in un letto di ospedale e costringerlo a morire in una camera a gas in
Polonia. Né si capirebbe il commiato finale di Raffaele Jaffe. Ciò che accaduto a loro non è insensato.
Pensateci un attimo: il senso in geometria indica la direzione, il punto verso il quale
necessariamente e con ineluttabile precisione un sistema andrà a terminare realizzando la propria
compiutezza. Ecco da questo punto di vista c’è un senso nel complesso del sistema della storia del
fascismo, una direzione, cioè, verso cui necessariamente e con ineluttabile precisione doveva andare
a terminare per realizzare la propria compiutezza. E questo punto finale, questo suo senso
geometrico, è l’affermazione della superiorità razziale, la necessità della guerra e dello sterminio
per affermarla.
Se provate ad osservare i fatti accaduti da questo punto di vista nulla è privo di senso.
Se Sanson Segre fosse stato considerato un uomo macchiatosi di chissà quali reati, sarebbe stato
giustiziato immediatamente, lo si sarebbe fatto morire all’istante o in una cella di una prigione
qualunque,.
Ma Sanson Segre non era un uomo.
Era un ebreo.
Lo so, ora vi state chiedendo cosa avreste fatto voi in quegli anni, se anche voi foste stato un alunno
o un professore del Regio Liceo Classico in quei tempi e se anche voi fosse stato chiesto di agire
con sincera, spontanea e sollecita collaborazione. Questo pensiero è lecito come è lecita la
compassione. Ma non deve fermare la sentenza e la condanna.
Lo so, sento le vostre obiezioni: c’era la guerra, c’erano la fame, il terrore e un odio irrazionale.
Ma cosa credete? Quando l’Italia entrò in guerra non è che le cose cambiassero di molto. Gli italiani
obbedivano alla legge, stavano all’ordine e agli ordini, come avevano fatto prima della guerra e
come avrebbero fatto dopo la guerra. La vita dopo tutto continuava come prima: la famiglia, il
lavoro, il bar, le chiacchiere e il Casale Calcio.
Si ma poi ci furono i tedeschi, l’occupazione nazista, mi direte. E allora indovino i vostri pensieri,
vostro Onore. Il pensiero degli “Italiani, brava gente”, incapaci di prendere l’antisemitismo in modo
serio è particolarmente attraente e viene spesso giustificato attraverso gli stessi luoghi comuni:
Farinacci, leader del movimento antisemita, aveva in fondo un segretario ebreo, o il gerarca
casalese Monzani che nasconde in casa sua il medico Morello per evitargli la cattura. Ma questi
non sono luoghi veramente “comuni”. Sono episodi grazie ai quali è stato alimentato un mito con
cui mettere a posto la coscienza e cancellare il vero e proprio “luogo comune”: la meschinità, la
codardia, l’ambiguità, o la compiacenza, la collaborazione, che potevano a volte essere mitigate
dalla compassione e dalla pietà per chi in fondo ti era stato compagno o di giochi o di bevute, ma
certo mai dalla convinzione che tutto ciò fosse sbagliato.
D’accordo, è vero. C’era la guerra. E chi non ha paura, chi non pensa a salvarsi, durante una guerra
in cui in ogni istante e da ogni angolo si poteva morire o sotto le bombe, o in una razzia tedesca o
semplicemente di fame e di stenti? La guerra, si sa, cambia i connotati dei comportamenti normali
delle persone. In guerra la gente tira fuori il peggio o anche il meglio di sé.
Sono d’accordo con voi. La guerra, e quella guerra, bisogna averla vissuta. A Casale erano uomini
in divisa nemica a fare i padroni e gli ordini erano in una lingua lontana. Erano soldati che in ogni
istante potevano mettere al muro qualcuno o bruciarti la casa. Con i tedeschi in fondo non si aveva
niente da spartire e quegli ebrei che volevano cancellare erano persone nate e cresciute, qua, che
parlavano il tuo stesso dialetto e conoscevano le tue stesse colline.
E allora qualcuno potrebbe dire che ci sta che la maggior parte degli ebrei piemontesi sia stato
arrestato da italiani su denuncia di italiani, come ci sta che un gerarca che aderisce alla RSI possa
impegnarsi a nascondere nella propria cantina un amico ebreo. E che gli arresti in fondo furono fatti
per guadagnare qualcosa con cui campare, tirare avanti in una guerra che ti rende meschino e
codardo, ma che, no per carità, l’antisemitismo non c’entra, perché gli italiani non erano e non sono
antisemiti o razzisti. Ci sta anche che mi diciate che furono i tedeschi ad ordinare la deportazione di
oltre settantamila ebrei tedeschi e che la guerra che gli italiani avevano in casa, la guerra fascista,
era ormai consapevolmente persa per sempre.
Ma prima? Nel 1938? Ecco su questo intendo insistere. Di che cosa si parlava in quell’autunno del
1938?
Io posso saperlo perché ogni mattina vedevo passare davanti a me ragazzi e insegnanti e ascoltavo i
loro discorsi prima delle lezioni, in quel momento in cui sei davvero libero di parlare di quello che
ti importa.
E di cosa si parlava allora?
L’Italia era campione del mondo di calcio. Quello conta sì, che conta. Ma ci pensate? Campioni del
mondo in Francia. Uno squadrone che aveva già vinto le Olimpiadi a Berlino, quattro anni prima.
Bartali aveva vinto il tour de France. Quello sì, che conta. Il Tour de France...
E il Casale Calcio navigava con dignità nel campionato di serie B affrontando scontri epici con
Fiorentina, Atalanta e con gli odiati Alessandrini.
Il Grande Caligaris si era appena ritirato ma era ancora nei cuori di tutti.
Al cinema si corre a vedere il film premiato a Venezia, Luciano Serra pilotai, dal romanzo di Liala,
o l’Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti.
Ecco questo erano i tempi e questi erano gli italiani.
Ma vi direi di più, se non temessi di esagerare. Vi direi sì delle bombe, della fame e dei ragazzi che
partono per il fronte per non più tornare ma aggiungerei, vostro Onore, e perdonatemi se lo faccio,
che qui tra questa mura si parlava anche e forse di più ancora del Bologna di Puricelli, dei goal del
capocannoniere, quel bicciolano di Silvio Piola e delle incredibili imprese di quello che diventerà
proprio in quegli anni il Grande Torino...
E poi Bartali e Coppi e quei loro duelli come nella mitica tappa Firenze Modena del 1940. E chi se
la perse allora?
Ma certo c’erano in tedeschi. E come si poteva fare? Ma quello che spesso si dimentica è che in
tutta l’Europa occupata dai nazisti furono deportati gli ebrei. Ma che solo in Italia ci furono ben
prima dell’occupazione nazista, le leggi razziali.
E che nessuno, in quell’autunno del 1938, disse che le leggi razziali erano sbagliate.
Opporsi era una cosa da comunisti, da fanatici, da criminali e mettersi in quei guai voleva dire
mettere nei guai la gente comune, meglio molto meglio, mi direte, il non vedo, non sento, non parlo.
E poi sapete una cosa? Una cosa di cui non parla più, perché voi preferite distinguervi da quei tempi
che chiamate “infami”.
In questo contesto coloro che non si adeguarono nello zelo e nella solerzia antisemitica vennero
accusati di “pietismo”, una parola con cui si indicava una certa accondiscendenza, una pericolosa
china che poteva confondersi con una presa di posizione filo-ebraico e che diventa sempre più
fastidioso per un regime ormai consapevolmente proiettato verso l’imminenza di una guerra che ha
tra i suoi principali obiettivi la realizzazione di un nuovo ordine mondiale fondato e giustificato
dalla necessità di porre alla guida del mondo le “grandi razze”.
Vi prego, vostro Onore, soffermatevi per un istante sul termine così diffuso a quel tempo di
“pietismo”.
Perché non è affatto sbagliato, vedete. Era proprio quel complesso di sentimenti che possiamo
chiamare “pietismo” che spesso spingeva ad aiutare gli ebrei. Nessuna opposizione, per carità,
nessuna espressione di un sentimento anti-razzista, nessun rifiuto di una politica antisemita di cui
non si condividevano i presupposti e i contenuti. Pietismo, quando non era un’accusa gettata come
fango addosso a colui di cui si destava la compassione e il rispetto umano, due debolezze
incompatibili con la “razza” guerriera, era tuttavia, come dire, quell’accondiscendere al dovere di
amicizia, l’essere costretti ad agire per conseguenza di legami di vicinato soprattutto in una piccola
città come Casale.
Insomma, potrò sbagliarmi, ma agli ebrei fortunati, il destino riservò la sorte di incontrare la pietà e
la compassione di una minoranza di uomini ma non l’opposizione dell’antirazzismo.
Come racconta Armando Morello, all’ordine perentorio dato al prof. Negri Gualdi, primario medico
all’Ospedale di Casale: “non si faccia vedere in giro con gli Ebrei!”, questi rispose con: “finché il
dott. Morello è un medico io mi faccio vedere in giro con un medico”.
Ecco: “medico” e non “ebreo”.
D’altra parte se il segretario del Fascio casalese, Monzani, fu disposto a rifiutare la proposta di
perseguitare Morello - “Morello non lo tocchiamo” – fu certo per amicizia e rispetto del valore di
un professionista che in più di un’occasione in precedenza prestò la sua opera e il suo soccorso, e
non per un convinto rifiuto della linea politica razzista del regime.
Insomma io non vedo null’altro che un processo lineare che si compie in modo naturale.
Ecco perché la bufera che ne seguì non mi sorprese. E forse come non sorprese me non sorprese
nessuno qua in queste mura.
Accadde tutto in modo così rapido. Lo strombazzar di fanfare. La mascella al balcone. Le reni
spezzate. Gli Hurrà della folla alla radio. La certezza della conquista. L’Albania, la Grecia. E poi la
Russia. Lo sconquasso. La guerra. Le divise. L’occupazione tedesca.
E il quartier generale nazista proprio qua tra queste stanze, con Mayer che appende su di me i suoi
ordini in una lingua che fu di Goethe e di Hegel ma che in quei giorni a tutti pareva la lingua dei
barbari.
E poi la liberazione. Il comando del CLN. I partigiani. Altre divise, atri timbri. altre intestazioni,
altri linguaggi, altro spirito sui fogli che mostravano alla folla che sostava davanti a me ogni
mattina.
Ma passò presto anche questo periodo. E dopo, dopo il 25 aprile del 1945, giorno della Libertà,
della fine della guerra e del regime, mentre fuori sembrava spirare forte un vento di cambiamento e
di rivoluzione, qua dentro, dentro le mura del Regio Liceo Classico, a me sembrava che tutto
tornasse come prima con solo qualche leggero mutamento negli stili e nei colori.
Ma gli uomini, sempre gli stessi.
Perchè i visi, i visi dei professori, io li riconoscevo. Erano ancora loro. Sempre loro: il prof.
Vautero, la prof. Rabagliati, ad esempio, con quel loro medesimo zelo, con quel loro stesso
entusiasmo.
La stessa sincera, spontanea sollecita collaborazione.
Ricordo che uno dei primi provvedimenti che fu approvato dal collegio docenti, nel maggio del
1945 la decisione di inviare una lettera “di riconoscimento per la lunga e benemerita attività svolta
in favore della scuola” al Preside uscente, Bianchi, sì proprio lui, il preside Bianchi, ricordate, no?
quello che non voleva insegnanti ma apostoli...
E il povero preside Ottolenghi, costretto a nascondersi in conventi di suore per evitare la
deportazione e che torna, dopo il 25 aprile e vede “a sua insaputa” il suo nome scritto tra i
componenti del CLN in rappresentanza del partito liberale?
All’unanimità. E all’unanimità bisogna scegliere un proprio rappresentante per il CLN della scuola,
perché bisogna farlo come bisognava fare con la G.I.L. e allora viene scelta la prof. Rabagliati,
definita “democratica cristiana”, e lei, poverina, si impegna con zelo a rappresentare il Regio liceo
Classico in seno al nuovo corso che vuole un mondo nuovo, diverso, e allora è il prof. Vautero, sì
proprio lui quello dei libri epurati, della censura, il preside che applicò le leggi razziali, che ora si
impegna e lo fa scrivere, ad applicare le nuove normative tese ad eliminare “le usanze fasciste nella
scuola”. È lui, il prof. Vautero, che ora si assume il compito di far firmare ad ogni candidato
d’esame una dichiarazione che comprovi “la non appartenenza alle forze armate repubblicane, alle
SS tedesche, alle disciolte brigate nere, alle organizzazioni TODT e di non aver commesso atti di
violenza o fatta ostentazione di faziosità fascista”. È sempre il prof. Vautero, insieme ai colleghi
Borasio, Rabagliati e Sorisio, a comporre la commissione che ha il compito di annullare gli esami
“sostenuti nelle sessioni straordinarie e ordinarie posteriori al settembre 1943 in base a documento
comprovante l’appartenenza alle forze armate del governo fascista repubblicano”.
Si sa i tempi cambiano e allora occorre organizzare un corso di preparazione “per i partigiani che
avendone diritto chiedano di frequentarlo” per gli esami in “sezione straordinaria per partigiani”.
Lo so cosa state pensando. C’è stato l’8 settembre e il nuovo fascismo, quello della RSI, un
fascismo che recupera lo spirito dello squadrismo volutamente “rozzo e popolare”, sovversivo sul
piano sociale, antimonarchico, repubblicano e soprattutto filonazista, non ha nulla a che fare con il
fascismo che si respirava prima tra queste mura. Però io me li ricordo i volti spavaldi di quei
giovani partigiani, che entravano in queste aule e si facevano titubanti e timorosi di fronte a quei
loro professori che avevano trascorso qua in queste mura tutto il percorso fascista.
Perché in fondo non avevano aderito alla RSI? Avevano quindi un’attenuante?
Ma allora? Si poteva prendere per buono il primo fascismo? Il loro fascismo?
Si poteva prendere per buono, allora, quel fascismo delle leggi razziali?
Ma sapete, poi, qual è la cosa che più mi ha colpito, quando la vita ha continuato a riprendere con
quotidiana normalità, passata la bufera della guerra? È l’impressione, per me, che continuavo ad
avere il compito di mostrare giorno per giorno le direttive della scuola, e che vedevo passare i volti
degli insegnanti e dei ragazzi, che se il fascismo era finito, sconfitto, morto e seppellito, come
regime, la storia italiana del dopoguerra qualcosa di sotterraneo e profondo aveva ereditato da
quegli anni e anni di cultura fascista, di parate, di testi obbligatori, di saluti e di doveri, anni che,
insomma, a qualcosa avevano servito. Come se la concezione totalitaria della società del fascismo
avesse forgiato la mentalità italiana che ora soltanto, a differenza di prima, si moltiplicava e s
differenziava nei molti rivoli dei partiti che al fascismo subentrarono.
Il senso della disciplina, l’ordine e l’inquadramento militare, la preminenza accordata alla comunità
e allo stato sull’individuo, la sottomissione della sfera privata e individuale su quella collettiva e
pubblica, il dovere d’appartenenza e rigido schieramento nel partito che assegna compiti e missioni,
il partito a cui solo spetta il ruolo di fucina di idee, il partito che solo detta regole e elabora progetti,
ecco quello io ho ritrovato nel dopoguerra e l’ho ritrovato nell’antifascismo, nel momento in cui da
valore si è tramutato in azione, in prassi quotidiana. Non più partito unico ma una moltitudine di partiti, ognuno dei quali mi sembrava replicasse per la sua parte, quello stesso spirito che avevo visto all’opera, giorno per giorno, durante gli anni del Regime. Certo qui ha inizio un’altra storia, la storia della partitocrazia italiana, che per me è solo stata una storia di altre direttive, di altre circolari e di un altro tipo di zelo, di sincera, spontanea e sollecita collaborazione ma, come posso dire, come posso spiegarmi? Io sono rimasta ancora lì, al centro dell’ingresso e dell’attenzione di tutti, esattamente come prima, ancora per anni e anni e mi è sembrato di respirare la medesima aria di quegli anni e anni in cui tutto quello che ho raccontato è accaduto così... come dire? In modo naturale, con “sincera, spontanea e sollecita collaborazione”. Io sono rimasta qui, appesa ancora per anni e mai e poi mai, nemmeno ora, che mi trovo gettata nei sotterranei tra scartoffie ammuffite, ho rischiato per un attimo di diventare cenere.
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