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Auguri...ma de che








Due giorni fa era l’8 marzo e, come ogni anno, le strade e le case si sono colorate di giallo e l’odore della mimosa – fiore simbolo di quella giornata – inebriava l’aria, risultando piacevole per alcuni, un po’ meno gradito da altri.
I cellulari e i social si riempivano di messaggi: “auguri a tutte le donne”.
Per usare un’espressione dialettale, tipica di un intercalare non esattamente piemontese, dico:
ma “auguri” de che?
L’8 marzo, al contrario di quanti pensano, non è la Festa della donna, ma la Giornata Internazionale dei Diritti della Donna. Il nome, di certo, assume tutt’altro significato, molto più profondo.
Non può essere una festa, perché non c’è nulla da festeggiare: questa è la verità.
Per molti anni l'origine dell'8 marzo si è fatta risalire a una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell'industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise da un incendio. Nel 1946, in Italia, fu scelto come fiore simbolo di questa giornata la mimosa, perché poco costosa e di stagione.
È importante parlare di Giornata Internazionale dei Diritti della Donna – e non di Festa della donna – perché, purtroppo, a tutt’ora l’intera popolazione mondiale femminile non gode degli stessi eguali diritti di un uomo.
Nei paesi di guerra, oltre ai bambini, le donne sono le maggiori vittime nei conflitti; molto spesso lo stupro, in paesi come Etiopia e Congo, viene usato come strumento di guerra contro i soggetti considerati più deboli, in larga parte ragazze e donne. Si pensi anche a paesi come l’Ucraina, dove, purtroppo, è in atto un violento conflitto o anche all’Afghanistan, in cui il ritorno al potere dei talebani ha significato la distruzione di tutte le conquiste fatte da parte della popolazione femminile afghana.
“Le donne, come sempre, pagano le spese più alte: diritti negati, cura dei figli malnutriti, impossibilità di lavorare e di muoversi liberamente”, avverte Pangea Onlus. Sono soggetti fragili e deboli, in quanto vittime anche di una fortissima società patriarcale purtroppo comune alla maggior parte dei paesi, anche quelli che riteniamo più “sviluppati” ed “evoluti”.
I femminicidi e la violenza domestica e psicologica sono una realtà ancora fermamente radicata e presente che non si può ignorare: ad esempio in Italia, solo nella primissima fase della pandemia, tra il 1° marzo e il 16 aprile 2020, sono state 5.031 le telefonate ritenute valide al numero antiviolenza 1522 – il 73% in più sullo stesso periodo del 2019 (Istat, 2020). Questo perché, con la pandemia in atto, le donne si ritrovarono con i loro stessi aguzzini in casa, prive di qualsiasi protezione e tutela.
Un altro problema significativo è anche l’occupazione lavorativa. Le donne rappresentano il 39% dell’occupazione globale, ma il 54% della perdita di posti di lavoro complessiva. La maggior parte delle volte sono loro a lasciare il lavoro per occuparsi dei figli e stare a casa.
Capita di sovente che nei colloqui di lavoro venga chiesto “lei ha intenzione di avere figli?” qualora ci si trovi una donna davanti, costringendola neanche così tanto implicitamente a scegliere tra famiglia e carriera. Spesso si ritrovano a dover accettare part-time involontari pur di lavorare. Si aggiunge il fatto che sono ancora veramente poche le donne che occupano una posizione altolocata nelle aziende, industrie, nell’economia e anche nella politica purtroppo.
Negli articoli di giornale, spesso si legge “è stata una donna a…”, “è stata eletta una donna…”, “un’altra donna uccisa…”. Tutte queste donne hanno un nome e vanno ricordate, ammirate e celebrate con il loro nome. Perché invece gli uomini hanno tutti un nome?
Un’altra triste innegabile realtà è il fatto che tutt’ora, anche in Italia, i diritti della donna non vengano rispettati. C’è una legge dedicata per tutelare chi non può o non vuole avere figli per determinate motivazioni che non è tenuta a dare; l’aborto è legale, eppure 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza, rendendo di fatto quasi impossibile abortire per una donna.
Nei casi di stupro o violenza sessuale, la donna da vittima passa a provocatrice, a quella che “se l’è cercata”; lo stupratore molto spesso se la cava con poco o viene comunque giustificato. Viene fatto passare per un animale fatto di istinti, incapace di trattenersi davanti ad una gonna “troppo corta” o una maglietta “troppo scollata”. E ancora, se vengono divulgati dei video o foto intime senza consenso della persona ripresa, la colpa non è di chi pubblica ma della donna che li ha fatti o mandati.
Quindi, esattamente, che c’è da festeggiare?
La Giornata Internazionale dei Diritti della Donna commemora i diritti conquistate e le battaglie vinte da parte della popolazione femminile, ma ci serve anche per ricordare che la strada per conquistare pari diritti è ancora lunga e sono tante, ancora troppe le cose da fare per raggiungerli.
Tutte queste problematiche non si risolveranno, purtroppo, regalando fiori e cioccolatini, per quanto sia un gesto bello e da alcune apprezzato – e qui lo ammetto, io per prima ho apprezzato i fiori regalatimi da amici e parenti, ma sono altrettanto consapevole che c’è una strada ancora ripida e lunga da percorrere, ma sono pronta a farlo.
Non solo l’8 marzo, ma tutti i giorni lottiamo e facciamo sentire la nostra voce: non basta una giornata per conquistare diritti e giustizia. A che serve un giorno solo, se poi in tutti gli altri migliaia di donne vedono i loro diritti e la loro persona calpestate?
Continuiamo ogni giorno, facciamoci forza. Celebriamoci sempre. 

S. F.
III A Class.


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