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Sono molti i problemi che affliggono il pensiero in questo momento storico che è in realtà un non-momento, una stasi al di fuori del tempo che oscilla tra futuri perduti e frammenti di un passato che ritorna, ogni volta etichettato con colori e prezzi diversi.
L'ontologia dominante, per quanto si possa definirla, sembra caratterizzata da un sentimento simile a quello che si prova da bambini, quando non si ha altro da fare che fissare vacuamente le lancette di un'orologio malfunzionante, imponendo una volontà autodistruttiva sull'universo intero. Ho osservato questa volontà sfruttando gli sparsi attimi di essenza, e mi sono posta vari quesiti per far fronte a questi problemi che sembrano senza capo né coda, oltre che totalmente inconoscibili se non attraverso rappresentazioni reattive. Uno di questi, che credo faccia da colonna portante per tutti gli altri, mi ha visto chiedermi come mai, pur sentendoselo dire a oltranza fino a perdere traccia della propria anima, il soggetto non produce più in alcun modo? Andare ad accusare il capitale onestamente sarebbe pura disonestà intellettuale; il capitale non può ricoprire il ruolo di agente, il capitale non è una macchina e non è un assemblaggio. (pensarlo come tale è uno sprofondamento nel cospirazionismo più becero e purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, antisemita) Il capitale, così impensabile, si trova non in un'assemblaggio, non in una cerchia di semidei del mercato che adorano passare le proprie giornate ad autopensarsi, ma in un virtuale di relazioni totalmente supraindividuale che si autoattualizza costantemente, che non emerge attraverso la produzione ma attraverso il consumo e la liquidazione di ogni cosa, di fronte al quale ogni tentativo di resistenza violenta non sembra essere altro che una follia posta in un triste limbo tra un'indifferenza simile a quella provata ogni mattina e un buco nell'acqua così vastamente invisibile da annientare quei pochi stolti spiriti che ci avevano creduto, anche solo per moda, come spesso ci sentiamo dire. È proprio dal contemplare questi buchi nell'acqua, che prendono forma nelle proteste di attivisti come Ultima Generazione, o nei messaggi anticapitalisti di Mr. Robot, (serie ironicamente prodotta da Amazon) che sorge il secondo quesito che voglio porre. Questo virtuale ha una struttura? È forse possibile osservarlo in qualche modo "da fuori", emancipandosi dal suo processo estinzionario e quasi autocosciente di attualizzazione perpetua? Magari semplicemente non esiste speranza, magari la linea tra virtuale ed attuale non esiste più, magari il pensiero è morto, una volta per tutte, dissanguato fino all'ultima goccia da un'identità di cui non è lecito parlare, poiché parlarne violerebbe le regole del gioco. A queste ansie, in seguito a infinite riflessioni, avrei voluto contrapporre un ridondante "No." Avrei voluto farlo non perché mi sento intellettualmente superiore a tal punto da vedermi al di fuori della logica binaria del capitale, non perché mi sento di giocare a fare la maestra del fine dell'esistenza, come avrebbe detto Nietzsche, ma semplicemente perché sono stanca. Sono stanca di questa alienazione, sono stanca di essere portatrice di questo virus così debole da fare da ospite a se stesso. E nonostante ciò, nonostante tutto, la questione rimane ridotta ad un tragicomicamente semplice "come fare?". Come fare, interrogativo onnipresente, a cui ho trovato varie risposte prodotte da pensatori del passato, risposte che sussistono necessariamente come complementari, orbitanti attorno alla gioiosa rivoluzione attuata da Gilles Deleuze. La sua produzione va esaminata per ciò che è: un violento, totale e fanciullesco sradicamento dell'immagine dogmatica del pensiero, da lui stesso individuata. Deleuze individua l'immagine del pensiero partendo dal rifiuto di un carattere della filosofia che mi ha da sempre irritato, ovvero la ricerca ossessiva della verità, per poi chiudere il cerchio instaurando una nuova ontologia, che demolisce del tutto l'essenzialismo identitario; un'ontologia di differenza. Da Deleuze risorge il suo predecessore, Nietzsche, libero dal folle (fallito) tentativo di assassinare la metafisica; in Deleuze termina la decomposizione delle spoglie di Cartesio, rigettato da Kant e Spinoza, e finito per diventare la logica del capitale stesso. Con Deleuze, la storia, da lui e Guattari definita "macchina desiderante", inizia un'opera di produzione positiva, smettendo di autonegarsi. Qui sta anche la risposta alla mia prima domanda; se la storia stessa è una macchina desiderante, il soggetto non si può più vedere come tale, al contrario, il soggetto è prodotto, non produttore. Il soggetto emerge dalle ceneri dell'individuo, (o un "corpo privo di organi") come forza attiva, come volontà creatrice. In fondo ammettiamolo, è forse possibile conoscere sé stessi? È forse possibile pensare a chi siamo negando chi eravamo? Nel collasso dell'individuo si intravede la fine del romanticismo; (la cui forma fu liquidata all'alba dell'ideologia neoliberale) consequenzialmente si spegne il problema degli universali, spostando così le "domande che tutti ci facciamo" dalle ingloriosamente egotiche pretese di conoscere la causa prima o il fine ultimo dell'essere a un'innocente e inevitabile "cosa possiamo fare? come potremmo vivere?" Ora, essendo questi quesiti senza verità, ribadisco poi la stupidità di questo termine, non voglio parlare di essi come se stessi cercando una risposta non contingente, voglio però rifarmi a Plotino, alla luce di quanto detto in precedenza. Andando oltre la vaga e relativistica divisione tra immanenza e trascendenza si inizia a concepire l'Uno. Lo si concepisce come capolinea della morale, come principio dell'etica, come Bellezza in quanto tale, da cui deve, necessariamente, attualizzarsi un nuovo Eraclito, asoggettivato, araldo della fine del realismo capitalista. "Nuovo", perché pensare all'eraclitismo puro come una dottrina valida è forse un errore ancora più grande dell'accettazione di un pensiero dogmatico e corrotto da affermazioni del tipo: "lo sanno tutti", o "svegliati, è buonsenso"; accettare l'eraclitismo puro, slegato da Deleuze, Plotino e Spinoza è una reazione classista e stagnante di individualismo sovrastrutturale. Il divenire non è una legge imposta a noi come una morale, o peggio, una punizione, il divenire emerge dall'Uno come auto-differenziazione, affermando che (purtroppo, per chi crede ancora che l'esistenza non sia innocente) non c'è assolutamente nulla di trascendentale che discende in simboli e riti autoflagellatori. Per concludere questo rizoma di pensieri emersi negli ultimi mesi, a ridosso di eventi che mi hanno forzata ad esternarli, mi sento di affermare che il tempo scorre ancora. Che il tempo scorre ancora e continuerà a farlo senza di noi. Quindi, smettiamo di pensarci, di incatenarci all'individuo, e tendiamo i nostri mille volti verso un torrente a cui dobbiamo permettere di travolgerci, e con quale gioia dobbiamo farlo, siccome l'unica alternativa rimasta è rendersi conto che siamo già morti. Questo breve testo probabilmente non avrà alcuna importanza, probabilmente, a rileggerlo tra un paio di mesi, mi sentirò testimone di un passato di ignoranza e pretenziosità. Ma per quanto concerne il passato, si tratta di una rarefazione, che condensandosi dà forma al presente. Proprio per questa ragione, finiamola quindi di crearci scuse per continuare a vivere come schiavi della "nostra natura" (come se essa stessa non fosse un prodotto di relazioni) o di qualche concetto coloniale elaborato da uno psicanalista. Finiamola di crederci "all'altezza della vita" (o non, ancora peggio), come se alla vita importasse qualcosa delle nostre gerarchie Finiamola di pensarci e imponiamo la nostra arte come striature sullo spazio liscio del futuro perduto; la dittatura del logos è crollata sotto il suo peso, ora rimaniamo solo noi, liberə di assumere nuove forme.
Rhea 3B LING
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