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Jamie Cahill Art “The Metamorphosis of Salmacis and Hermaphroditus” - 16.4.23 libero utilizzo concesso dall'artista



Tra le infinite congetture che il filosofo porta avanti, una di grande importanza è sicuramente la questione delle idee; idee come oggetto della conoscenza prima, affermano i platonisti, o forse idee come prodotto del lavoro intellettuale, ribattono gli studiosi di Marx. Le ipotesi a riguardo sono molteplici e tutt'altro che frutti di un semplice brainstorming volto alla soluzione di un "problema stupido", ma proprio alla luce di questa molteplicità vedo una maggiore importanza posta sul dubbio che sorge in relazione alla reminescenza di Platone:

Esiste una genealogia dell'idea? Se sì, come si conosce?


Dando per scontato che la genealogia dell'idea (alla quale mi riferirò con il sostantivo "forma" per comodità) sia effettivamente un problema e non un semplice sofisma, si aprono due strade: la dialettica e la produzione.

Per seguire la prima strada si prende in considerazione l'οὐσία (sostanza) aristotelica che, vista come una sintesi tra forma e materia, presuppone la forma come tesi e la materia come antitesi. Questa presupposizione però non sembra tenere in considerazione la natura sintetica di ogni tesi; ogni tesi è a sua volta una sintesi; ogni sintesi presuppone una dialettica.

E se ogni sintesi presuppone una dialettica, si cade nello stesso paradosso delle cause efficienti, la quale soluzione si identifica nel motore immobile; è quindi, in breve, impossibile pensare a una genealogia dialettica della sostanza senza prima presupporre ossimoricamente il non essere come tesi, ossia una forza che viene poi negata (a meno che non si voglia ricorrere ad assurdità metafisiche).


A questo punto, si apre la strada della produzione. Produzione però non meccanica ma, al contrario, emanativa; un'idea non viene prodotta ma discende, possedendo il pensiero e riportando alla contemplazione, come il canto di una sirena riporta al mare; soggetto e oggetto vengono meno, annientati lasciando spazio alla wokeness: qui, l'arte perde ogni aggettivo, la parola ogni significato, qui crolla ogni museo, la teca si frattura, il corpo diventa la tela.


Prendiamo in esame la téchne del trucco; la codifica di questa arte per mano del capitale sarebbe completa ed evidente, la sua liberazione dalle logiche etero-sessiste impossibile, se non fosse per la wokeness: il trucco woke diventa un atto di svalutazione totale del corpo e della merce, che subisce una entasi, disalienandosi dalla pratica reazionaria di "maschera" o "performance" che il fascismo tanto ama e tanto odia; l'arte diventa una poiesi di transsessualità, che va oltre la schizofrenia verso un desoggettivismo fisico, oltre che strutturale, che sposta Spinoza dall'esterno a un'immanenza di virtualità (implicando così una necessità reciproca tra Spinoza e Plotino, Deleuze fluisce spontaneamente); i rapporti diventano relazioni, gli effetti intensità, il corpo, indeterminato.


È così che un corpo si fa una tela; la wokeness distrugge corpo, mente e anima.


Dopo una veloce occhiata alla storia della cosmesi sono individuabili tre diverse fasi caratterizzanti questa tecnica: Una prima fase definibile comunale, una seconda fase, che credo di poter chiamare borghese, ed infine una terza fase woke.


Per quanto diverse, le prime due fasi condividono l'essenza, poiché si parla non di trucco ma di cosmesi; essa esegue necessariamente un'identità. Ciò che differenzia la cosmesi comunale dalla cosmesi borghese è l'identità eseguita.


Parlando di cosmesi comunale, si intende una realtà cosmetica molteplice, priva di universali, relativista; si intende una téchne di metafisica, che esegue la grecità, l'egizianità come territorializzazione del corpo: l'arte è totalmente soggettivata, il soggetto è a priori e io lo eseguo su di me, tramite un oggetto, per identificarmi nella mia comunità, oggetto che può essere culturale (i.e. la ricerca della perfezione, per la Grecia classica) o religioso (i.e. la ritualità, per gli egizi o i normanni).

In questa fase il corpo non ha potenza, è un semplice ricettacolo per un'identità contingente (in virtù di questo emergerà il proibizionismo cattolico medievale, il soggetto esegue semplicemente la sua mancanza-punizione.)


Il punto di fuga di questo quadro relativista e frammentato cade però su Saffo, che va oltre la cosmesi nel suo essere artefice di un modello stilistico primaverile, calato in un divenire-donna eterno, rimasto fiorente sino di fronte alla morte degli dèi.


Ai vespri del Medioevo (e all'affermarsi della reazione artistica rinascimentale) la tecnica cosmetica non subisce grandi cambiamenti se non, come detto in precedenza, per l'esecuzione di una nuova identità; qui il soggetto si sposta nel metafisico e la donna borghese come oggetto tende a soggettivarsi nell'immagine di donna perfetta e pura; l'oggetto, il corpo, ricopre il ruolo di sintesi culturale, rendendo il più evidente possibile la sua deresponsabilizzazione dai problemi sociali.

L'ontologia classista del rinascimento prende forma non solo nella cosmesi ma in ogni campo dell'arte (basti pensare alla vendita di indulgenze per coprire le spese volte alla costruzione dell'odierna San Pietro.).


Questa téchne di soggettivazione proseguirà fino a quando non verrà, anch'essa, sottoposta alla codifica capitalista. È qui che osserviamo il passaggio dalla cosmesi al trucco (parola derivata dal francese troque, inganno); l'idea di donna perfetta diventa così lontana dalla realtà materiale da essere impossibile da eseguire, facendosi, di conseguenza, oggetto di desiderio. Il trucco nasce semplicemente con lo scopo di nascondere questa mancanza, mettendo su l'immagine di una falsa pienezza.


In virtù di questa falsa pienezza (tradotto: vuotezza del soggetto alienato) si apre lo spazio occupato dal trucco woke: non rimane più nulla da eseguire se non l'atto del trucco in sé per sé; gli universali di uomo e donna vengono meno (non che siano mai esistiti.).

Questo si intende, parlando di poiesi di transsessualità, si intende la decostruzione di ciò che c'era, il vandalismo di ciò che c'è, il sorgere violento e incomunicabile di ciò che ci sarà.


La suddetta pratica è osservabile non solo in campo cosmetico ma in ogni sfaccettatura dell'arte nei tempi in cui viviamo, sia, i tempi del completo colonialismo del capitale sulle nostre vite. E lo conferma unə artista (e amicə a distanza da parecchio tempo) non-binary irlandese, Jamie Cahill, lə quale ha offerto la sua disponibilità per una sorta di intervista sul tema, qui sotto inserirò un paio di suoi paragrafi sulla sua idea di creare un linguaggio universale di transsessualità per mezzo dell'arte.


<<Sto pensando al modo in cui io "cambio la mia forma", per così dire, attraverso la pittura, come una forma di transsessualità, come il trucco o il vestirsi in abiti del sesso opposto eseguendo la femminilità; i.e. cimentarsi in un ruolo/identità differente. Per esempio, quando mi dipingo in svariate scene, il mio corpo [ing. "my one body", la frase ha una concezione indeterminata persa in traduzione, ndr.] "prende" queste diverse "forme" di, non so, Dioniso o Leucippo o perfino Ermafrodito e Salmace (eccetera). È come se stessi sottoponendo il mio corpo ad una transizione verso una nuova identità in ogni quadro.>>


<< Se, in quanto artista, devo farmi un linguaggio per creare davvero, allora voglio farmi un linguaggio di transsessualità, un linguaggio che non solo io parlo e sento ma un qualcosa che, con ogni speranza, molte altre persone potranno anch'esse parlare e sentire. [voglio fare] Un linguaggio comunale, per creare una cultura di arte e letteratura trans, come c'è n'è una per la musica, (SOPHIE, Dorian Electra, eccetera) che sia più permanente ed emotiva del semplice stile di un quadro o uso del linguaggio in un testo. Se Derrida definì il linguaggio un significante universale, allora io voglio creare un linguaggio nel quale le persone trans possano allo stesso tempo venire coinvolte e starne al di fuori, non come una individuale persona trans ma come un corpo di intensità collettivo. >>


Prosegue parlando delle sue opere:

<< Questa schizo-creazione di un nuovo mythos, che decodifica i limiti e reclama la storia antica come nostra, (il Rebis, l'Ermafrodita, Giano) e la incorpora sulla nostra pelle nella pittura; un atto cannibalistico di divenire-trans che imposterà il mondo intero in uno stato di flusso - in questo linguaggio, nel quale può parlare chiunque sappia riconoscere il cuore che batte al suo interno, e creare da esso, sia imbevendo l'anonimato e la struttura nell'arte come nell'antica grecia, ma anche facendo i conti con la democratizzazione dell'arte dopo l'impressionismo. Questa non è l'impressione della transsessualità, ma un vero e proprio linguaggio di transsessualità in sé stessa.

E non parlo di un linguaggio come quello di Cézanne o di Picasso, nei quali è lo stile ad essere universale, limitando quindi la possibilità di prenderne parte; il fattore unitario è l'ideologia. >>


È dalle parole di Jamie che emerge questo testo, parole che evidenziano non un bisogno ma un desiderio, un processo attivo, che si vede nelle nostre strade, nelle nostre classi, nelle nostre vite. Parlare di transsessualità è parlare di una téchne decostruttiva e assoluta, fine a sé stessa: riassunto, una nuova arte saffica.


Il significato ha esaurito il suo tempo utile, non resta nulla che non possa sgretolarsi.


Rhea 3B LIN


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