“Nier: Automata” è un capolavoro che ha cambiato la mia percezione
della vita. Prima di spiegarne il perché, è opportuno descrivere alcuni tratti stilistici dell'opera. Lo stile estetico è decisamente particolare: utilizza character
design e worldbuilding al punto da richiamare fortemente il mondo anime e manga
e ciò, soprattutto in occidente, può talvolta essere un fattore positivo, ma il
più delle volte produce l'effetto opposto. Ciò che vi prego di fare, in ogni caso, è
andare oltre questa scelta di design, perché altrimenti rischiate di perdervi quella che a mio
parere è l'opera più profonda degli ultimi tempi.
Soffermandomi ancora un po' sull'aspetto tecnico del gioco, vale la pena elogiare
il suo ineguagliato utilizzo della musica. Yoko Taro, il creative director
della serie Drakengard e dello spin-off del 2010 “NIER”, da cui deriva “Nier:
Automata” (e il remake del 2021 Nier Replicant), ha fatto una scelta piuttosto
azzardata per quanto riguarda la musica nei suoi giochi: ha utilizzato ciò che
viene definito "Chaos Language", un linguaggio inventato (che nel
caso di Nier non ha una traduzione specifica), per evitare di usare testi in
linguaggio definito, i quali finiscono quasi sempre per distrarre il giocatore
e rompere l'immersione.
È arrivato però il momento di parlare del perché considero questo titolo
un'opera rivoluzionaria e perché ha avuto un impatto così forte sulla mia
persona. Argomenterò questi aspetti partendo dalla descrizione della trama del
gioco, che è apparentemente lineare: nel 11945 D.C., il genere umano è stato
ridotto sull'orlo dell'estinzione a causa di un'arma devastante creata da forme
di vita aliene e cioè le biomacchine (machine lifeforms, in inglese) e i pochi
superstiti sono residenti sulla Luna. L'umanità pianifica una controffensiva
attraverso ciò che viene definito "Project YoRHa", ossia lo sviluppo
di androidi da battaglia progettati con lo scopo di riprendersi il Pianeta
Terra sconfiggendo le biomacchine. Il giocatore, nei panni dell'androide
femminile 2B, sarà il protagonista di questa battaglia. Man mano che il
giocatore procede nel titolo, composto da 3 "Routes" differenti che
si susseguono, viene posto davanti a moltissime domande e altrettanti
stravolgimenti, che faranno molto riflettere.
I temi trattati da quest'opera possono essere divisi in questioni
religiose, relative a cristianesimo e induismo, e questioni filosofiche, basti
pensare che nel gioco sono presenti numerose entità che portano i nomi di
figure come per esempio Pascal, Kierkegaard, Grün, Hegel, Engels, Ernst,
Jean-Paul Sartre, e via dicendo. Il messaggio finale del gioco, comunicato
attraverso l'ultimo dei cinque finali possibili (il finale E), è ciò che mi ha
stravolto la visione delle cose: l'universo è intrinsecamente privo di
significato, nessuno di noi ha uno scopo preciso prefissato nella nostra mente
e percepito ancora prima dello sviluppo di una coscienza, ma questo è proprio
quello che rende la nostra stessa esistenza degna di essere vissuta; è compito
nostro trovare significato in essa, dando valore anche alle piccole cose e a
tutto ciò che superficialmente sembra "inutile", come i videogiochi,
l'arte, la letteratura, ecc., anche se non è necessario trovare una risposta a
tutto. Il fattore decisivo di quest'opera, però, è il modo in cui il cosiddetto
“Finale E” comunica questo messaggio e cioè distruggendo letteralmente la
quarta parete e mettendo il giocatore in una posizione di confronto con il
proprio io… ma mi fermo per evitare eventuali spoiler. Vorrei chiudere citando
la prima frase del titolo, pronunciata dalla protagonista, 2B, ovvero la
seguente:
“Tutto ciò che ha una vita è destinato a finire.
Siamo eternamente intrappolati in una spirale senza fine di vita e morte.
È forse una maledizione? O una sorta di punizione?
Spesso penso alla divinità che ci ha benedetti con questo enigma, e mi chiedo se mai avremo la possibilità di ucciderla”.
M.C. (2 B ling.)
Immagine di copertina tratta da: https://store.playstation.com/it-it/product/EP0082-CUSA04480_00-GOTYORHADIGITAL0
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