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YOU: cognitivismo e psicoanalisi a confronto per capire a fondo Joe

La serie “You” è basata sui due romanzi “You” e “Hidden Bodies” di Caroline Kepnes. Il soggetto principale della trama è Joe, un ragazzo ossessionato dalla ricerca dell’amore perfetto, che si scopre da subito essere dedito allo stalking. Anche se in teoria Joe potrebbe risultare “il cattivo” della storia, nel corso degli episodi gli sceneggiatori sono molto abili a portare il pubblico a simpatizzare per lui, ed è anche per questo che la serie ha un po’ diviso gli spettatori, tra chi l’ha amata, e chi proprio non l’ha apprezzata. 

Partendo dalle sensazioni ambigue che You ci ha lasciato, quindi, bisogna capire più a fondo la psiche di Joe. Per fare questo si possono confrontare due prospettive teoriche, quella cognitivista e quella psicoanalitica. 

 Cosa c’è nella testa di un serial killer? Partiamo dalla perplessità che genera questa domanda. 

 Joe è veramente un serial killer? Sicuramente sì, lo dicono i fatti. Eppure, la struttura della narrazione e la scarsa enfasi sulle indagini – lato debole della serie – ci restituiscono il profilo di una persona all’apparenza normale e ben voluta. Il classico vicino di casa che “salutava sempre”. Questo, se da un lato ci spaventa perché ci avvicina al “mostro”, dall’altro ci permette di capire che i meccanismi mentali di base sono simili in tutti noi: ciò che crea patologia è la pervasività, ovvero l’incapacità di confinare un argomento nella nostra testa. 

 Joe pensa solo alle ragazze di cui è innamorato e per loro perde di vista ogni impegno lavorativo e progettualità esistenziale. Il pericolo, quindi, riguarda quanto la nostra mente si focalizza su un unico obiettivo e lo rende totalizzante, facendo perdere di vista tutto il resto. Anche per gli altri serial killer descritti in You, ad esempio, la situazione degenera quando un obiettivo diventa l’unico protagonista sul palcoscenico mentale.  

 La domanda potrebbe essere riformulata così: “Com’è la mente del serial killer?”, spostando l’attenzione dai contenuti ai processi mentali. Gli ultimi sviluppi della terapia cognitivo-comportamentale, infatti, propongono interventi che potenziano i processi mentali per renderci più adatti e flessibili alla gestione degli eventi avversi e delle emozioni che sono in grado di turbarci. 

 A cosa pensate quando immaginate un killer? 

La rappresentazione più comune è forse quella di un disadattato solitario che si aggira di notte per uccidere senza motivo, spinto solo dalla sua malvagità. La psicologia del killer – e di Joe – però, è molto più complessa di così. 

 Quando immaginiamo un omicida in questo modo, infatti, stiamo compiendo un’operazione di distacco. Stiamo definendo un “noi” e un “loro”: noi siamo al sicuro, siamo i buoni, immuni dalla violenza; loro sono i malati, i pazzi. Bene contro male. Questa azione è un meccanismo di difesa, che ci protegge dall’ansia di riconoscere in noi quelle stesse parti “sporche” che vediamo nei killer. Storie come You sono molto efficaci proprio perché mostrano che in ognuno agiscono le stesse forze. 

Si potrebbe allora riformulare la domanda iniziale in “cosa c’è nella nostra testa, che può renderci dei serial killer?”. 

 Ci sono di sicuro amore e morte, due facce della stessa medaglia. I traumi infantili di Joe fanno prevalere nella vita del protagonista rabbia, solitudine, paura. E così per Joe l’abbandono diventa una frustrazione intollerabile e l’amore un ideale morboso. Quindi nella testa del killer si annidano due pensieri ossessivi: la ricerca di un amore perfetto e incondizionato, che possa “riparare” il fatto di sentirsi rotto dentro; il potere di vita e di morte, che possa compensare il senso di impotenza sperimentato nell’infanzia. Quanto più l’amore viene negato nell’infanzia, tanto più una volta cresciuti si avrà il bisogno di controllarlo, per difendersi dalla sua forza travolgente. E questo a volte può portare a modalità relazionali perverse e a risvolti tragici come l’omicidio, che è il tentativo di negare il potere dell’amore su di noi. 

 Quali sono le regole dell’attrazione? 

Le motivazioni per cui ci innamoriamo di una persona hanno spesso radici nei nostri schemi interpersonali, ovvero nelle modalità con cui impostiamo le relazioni con chi ci circonda. Love è un nome azzeccatissimo per la ragazza di cui Joe si innamora nella seconda stagione, perché lui punta all’amore in sé, più che ad una ragazza reale: la storia di vita che viene svelata nell’avanzare delle stagioni ci mostra una serie di situazioni reali da cui Joe non può far altro che fuggire, rifugiandosi ora in uno sgabuzzino, ora in una libreria o una gabbia protettiva. Per questo motivo Joe sembra innamorarsi più di un’idea dell’amore che di una persona reale. Infatti, quando Love si mostra molto simile a lui, Joe si allontana perché quella situazione rende Love “troppo umana” e sicuramente una regina troppo reale per il nostro eroe. Anche nelle relazioni sviluppate con le differenti protagoniste delle due stagioni, inoltre, Joe manifesta un procedimento schematico che diventa un dogma: le seduce e supera le crisi quotidiane con loro esclusivamente dando ulteriore dimostrazione del suo amore. Avere un’unica strategia di coping rischia di far innamorare l’altra persona di questa strategia più che di noi stessi. 

Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, descrisse alcune modalità principali di scelta dell’oggetto d’amore, una tra queste è la via narcisistica. In questo caso amiamo chi è simile a noi, oppure la persona che ci piacerebbe essere. Ci innamoriamo anche di chi potrebbe darci ciò che non abbiamo avuto in passato, oppure di qualcuno che conferma i nostri schemi. 

 E così in You Joe usa lo stalking per affrontare l’ansia dell’abbandono sviluppata nell’infanzia, cercando la donna “perfetta” che non lo abbandonerà mai. La scelta degli sceneggiatori di chiamare “Love” la donna ideale in questo senso è quasi profetica. Dopo tante donne non all’altezza del suo ideale malato, alla fine Joe trova l’Amore, quello perfetto e tanto desiderato. Ma anche lei si rivela incredibilmente deludente, perché umana e reale, e anzi, forse ancora più terrificante proprio perché così simile a lui. È possibile cambiare? 

 Tra la prima e la seconda stagione, l’impegno di Joe con sé stesso è esplicitato dalla sua voce narrante: vuole migliorare e si impegna a farlo. Nei suoi tentativi di cambiamento, Joe racconta a se stesso di come stia provando a modificare i suoi comportamenti quotidiani. Nella seconda stagione però, scopriamo subito, ad esempio, che la scelta del nuovo posto di lavoro è legata alla necessità di controllare la nuova ragazza di cui è innamorato. 

Una tecnica di cambiamento in terapia cognitivo-comportamentale è la prescrizione di modifiche specifiche di comportamenti reali. Nella serie, Joe fa proprio questo, e cerca di individuare e modificare i comportamenti inadeguati che fanno soffrire gli altri e lui stesso. Il problema è che questo processo diventa molto più efficace se guidato da uno psicoterapeuta. In una terapia, infatti, è possibile concordare un cambiamento del comportamento avendo ben presente l’obiettivo più profondo dietro la modifica pratica. 

 La vicenda di Joe è articolata in modo parallelo a quella di Raskol’nikov, il protagonista di “Delitto e castigo”, romanzo capolavoro di Dostoevskij. Nella seconda stagione, ad esempio, Joe comincia a capire la gravità delle sue azioni con un percorso molto simile a quello di Raskol’nikov, arrivando a pensare, in alcuni momenti, di meritare una pena. L’incontro con la vera Love però fa crollare tutto, e nelle scene che chiudono la seconda stagione diventa chiaro che Joe è tornato al punto di partenza. Il percorso di cambiamento, comunque, sembra improbabile fin dall’inizio. Ogni volta che Joe si rende conto della gravità delle sue azioni, infatti, sembra scivolare in uno stato quasi psicotico. Per difendersi da quest’ansia Joe deve quindi perseverare nella costruzione di un “falso-Sé”, che però non basta per proteggere se stesso e gli altri dai propri demoni. Nel mondo reale, allora, l’unica possibilità di cambiamento potrebbe essere l’inserimento in una struttura carceraria adeguata, attenta al percorso psicologico del detenuto e alla sua riabilitazione. In questo modo Joe potrebbe lavorare sulle sue angosce in un contesto sicuro.

N. B.

2B Classico

 

 

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