Nel momento in cui siamo tenuti ad affrontare la questione “violenza su animali” (e questo spesso accade non per volontà di decostruire un meccanismo di oppressione, ma per compulsione, per rispondere a uno stimolo mediatico che ci provoca ribrezzo, e ci porta di conseguenza ad esternarci da queste dinamiche, attraverso una retorica di deumanizzazione nei confronti dell’aggressore e di pietà per l’aggredito), affrontiamo il tema come un “problema” isolato, senza renderci conto che il sistema di oppressione in cui viviamo non risparmia gli animali non umani – e questo nel migliore dei casi; alle volte ci si appella in modo immediato alla giustizia carceraria o corporea, diventando attivi perpetratori di questo sistema.
Con il suo testo “Femminismo Animale”, pubblicato di recente sulla rivista online Ingenere, Elena Dell’Oste, giovane filosofa nata a Casale Monferrato, riporta alla luce e rielabora riflessioni antispeciste degli anni che vanno dai ’70 ai ’90, messe su carta da Carol J. Adams in un libro intitolato “The Sexual Politics of Meat”.
Nel suo commento, l’autrice ci fa notare come il consumo di carne sia un simbolo di virilità e dominazione maschile, analizzando l’analogia tra la condizione della donna e quella dell’animale, mostrandone i margini in ambito storico, culturale e, in maniera cruciale, linguistico – parafrasando le parole della studiosa monferrina: "Per rendere possibile la trasformazione dell’animale in carne da consumo, è necessario farlo smettere di esistere come individuo".
Da qui segue una sua riflessione – che ritengo essenziale per iniziare a pensare una struttura libera dallo sfruttamento di tutti gli animali – sul modo in cui l’animale viene portato a cessare di esistere come individuo, ovvero attraverso il registro linguistico.
Quando cuciniamo e mangiamo animali, non ci appaiono come un’unità, ma come una moltitudine indifferenziata di “pezzi” – braciole, costine eccetera; l’animale viene annullato, sventrato e venduto al consumatore.
Allo stesso modo, prosegue il testo, il corpo della donna subisce un destino simile, venendo ridotto a una serie di parti “vendute” allo sguardo maschile.
Se ci ricolleghiamo al testo di Tarabini [24/02/2022, Il Manifesto], ora abbiamo una base sulla quale posare questa serie di statistiche, facendo emergere il motivo per il quale credo che la riflessione sulla lingua debba essere uno dei capisaldi del nostro ragionamento, se davvero vogliamo pensare una nuova teoria antispecista. Osserviamo velocemente l’indagine condotta sui contesti e, anteriormente ad essi, sulle categorie di persone tra le quali è maggiormente presente la violenza su animali: gli uomini si rendono responsabili dell’85% circa delle aggressioni su animali, le quali hanno luogo maggiormente in rapporti commerciali (26,8%) e in rapporti amicali-familiari (24,85%).
In entrambi questi contesi, la posizione che l’animale ricopre è quella di un oggetto – “ho un cane, è di mio papà”, oppure, “ti vendo un cane da una cucciolata di razza”. Analogamente, nulla mi vieta di dire “ho una moglie, ho una figlia” – la famiglia viene ridotta ad una proprietà, tutto scade “nella nullità dell’unità identica”.
Questo significa forse che la radice dello sfruttamento animale può essere espiantata solo attraverso una totale abolizione di Stato e famiglia, come sperava Platone? No, certamente, ma dobbiamo ripensare queste istituzioni e, ancora più a fondo, dobbiamo ripensare il patriarcato, che non si manifesta più come una struttura di sfruttamento delle donne in ogni ambito della realtà, ma come la tirannia del razionalismo cartesiano maschile, razionalismo del dominio e del dubbio, che fa della violenza sugli animali un modo per rendersi autoevidente.
R. C. 4 B ling
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