Memorie, suoni e colori: il ricordo della Shoah tra storia, film, musica e arte
Ogni anno, il 27 gennaio, ci fermiamo per ricordare. La Giornata della Memoria ci invita a riflettere su uno dei capitoli più bui della storia dell’umanità: la Shoah. Non è solo un dovere civico, ma un atto di consapevolezza collettiva per mantenere vivo il ricordo di milioni di vite spezzate. Attraverso le immagini intense dei film, le melodie struggenti della musica e la potenza espressiva dell’arte, il ricordo della Shoah si tramanda di generazione in generazione, parlando con linguaggi diversi ma con un messaggio universale: non dimenticare mai. In questa rubrica, vogliamo esplorare come queste forme creative riescano a restituire voce al passato, insegnandoci il valore della memoria e della resilienza. Seguici in questo viaggio fatto di memorie, suoni e colori: un viaggio per non dimenticare, ma anche per imparare a costruire un futuro migliore.
MEMORIE
Dai film alla realtà…
Un sacchetto di biglie:
Era il 2018 quando usciva nei cinema italiani il film Un sacchetto di biglie, esattamente un anno dopo il debutto nelle sale francesi. Tratto dal romanzo autobiografico di Joseph Joffo (1931-2018) e ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, Un sacchetto di biglie mette in scena la storia di due fratelli ebrei che non hanno altra scelta se non quella di separarsi dalla famiglia a causa delle crescenti persecuzioni naziste a Parigi. La drammatica situazione nella capitale occupata costringe il loro padre a una decisione drastica nel tentativo di salvare tutta la famiglia: i genitori e i loro sette figli devono lasciare Parigi in cerca di un luogo più sicuro, ma per farlo devono dividersi e mettersi in viaggio separatamente verso il sud della Francia. Diretto dal regista canadese Christian Duguay, il film è interpretato dai giovani Dorian Le Clech e Batyste Fleurial.
Gli eventi narrati in Un sacchetto di biglie sono realmente accaduti, come scrive Joseph Joffo nel libro in lingua francese “Un sac de billes” Figlio di un parrucchiere e di una violinista e ultimo di sette figli, Joseph viveva a Parigi nel 18° arrondissement e aveva 9 anni nel 1940, quando in città arrivarono i tedeschi. Degli orrori in corso erano ben consapevoli gli adulti, come suo padre Roman Joffo. Fu lui a prendere la decisione di fuggire, purtroppo non tutti insieme.
La Francia fu divisa in due. La metà settentrionale che comprendeva la costa atlantica, denominata Zone Occupée, era sotto l'occupazione militare tedesca. A sud la Zone Libre era una sorta di stato in apparenza neutrale in quanto demilitarizzato, con un governo collocato nella cittadina di Vichy, ma politcamente vassallo della Germania nazista. Joseph e Maurice, di due anni più grande, partirono per da soli per raggiungere i fratelli Albert e Henri a Mentone. La loro pericolosa avventura li portò a superare la cosiddetta linea di demarcazione che divideva la Francia, un confine estremamente sorvegliato. L'antisemitismo nel frattempo si stava diffondendo e mentre i due ragazzini raggiunsero i fratelli maggiori, i loro genitori venivano arrestati a Pau, nel sudovest del paese, e rinchiusi nel campo d'internamento di Gurs ai piedi dei Pirenei. Riuniti nuovamente a Nizza, qui ripartirono con una una nuova vita, andando regolarmente a scuola, vivendo la precaria "normalità" di un regime in stato di guerra che continua a perseguitare gli ebrei. Qui Joseph e Maurice entrarono in confidenza con alcuni soldati italiani che si comportavano diversamente dai francesi e tedeschi, perché non arrestavano gli ebrei.
La fine del regime fascista in Italia nell'estate del 1943, sciolse l'occupazione italiana sulla Costa Azzurra e lasciò campo ai tedeschi per inasprire le persecuzioni. La famiglia Joffo dovette ancora disperdersi. Di nuovo in fuga, Joseph e Maurice sfuggono alla Gestapo e si rifugiano nel dipartimento dell'Alta Savoia ricostruiscono una vita temporanea fino alla fine della guerra i paesi in cui trovano rifugio, vicino al confine con la Svizzera.
È Un film davvero toccante, che ci racconta una storia difficile da superare, soprattutto perché i protagonisti, che sono ancora ragazzini, non possono cedere a qualcosa di così più grande di loro. Nonostante questo, tra il rapporto fra fratelli emerge solidarietà, amore e unione verso il fratello, ma soprattutto la paura di essere separati.
L’ultima volta che siamo stati bambini:
Il film "L'ultima volta che siamo stati bambini" è ambientato a Roma nel 1943 dove quattro ragazzi si divertono giocando alla guerra tra i suoni dell’allarme per i veri bombardamenti: Italo, figlio di un capo fascista; Cosimo, figlio di un dissidente in esilio; Riccardo, di origine ebrea; Vanda, orfana che vive in un istituto di suore. I quattro amici sono uniti da “un patto di sputo”, un legame che niente può spezzare. Un giorno Riccardo viene deportato in Germania insieme ad altri ebrei. Quando i tre amici scoprono la verità decidono di andare a salvarlo certi che il loro amico non abbia commesso nessuna colpa. Si mettono in marcia lungo i binari della ferrovia dove un treno tedesco lo ha portato via. Dopo qualche giorno, vanno a cercare i fuggitivi Vittorio, soldato fascista fratello di Italo, e suor Agnese, molto legata a Vanda, che vive nel suo stesso istituto. Un viaggio incoraggiato dalla speranza e dalle illusioni.
Storia di una Ladra di Libri:
Il 27 marzo 2014 usciva nella sale cinematografiche italiane Storia di una ladra di libri, diretto da Brian Percival. Il film era tratto dal libro di Mark Zusak il cui titolo in lingua originale è The book thief. Il libro dello scrittore australiano fu un vero e proprio successo: rimase nella lista dei best-sellers del New York Times per diverse settimane.
La storia riguarda un episodio accaduto quando la madre dello scrittore australiano aveva solamente sei anni. All’epoca abitava ancora in Germania e la Seconda Guerra Mondiale era una realtà quotidiana. Un giorno, sua madre sentì un rumore. Era come se del bestiame stesse passando nelle strada sotto casa sua. Si affacciò alla finestra e vide che in realtà erano delle persone, ebrei che venivano caricati su delle camionette per essere poi trasportati verso i campi di concentramento. In mezzo a questi uomini c’erano un anziano, sfinito dalla stanchezza, e un ragazzo che per aiutare l’anziano cercò di offrirgli un pezzo di pane. Un soldato vide la scena e picchiò entrambi. Il ragazzo per essere stato gentile e il vecchio per aver accettato la gentilezza.
Questo film, affronta tematiche che si distolgono un attimo dai soliti temi come dei due titoli precedenti, ma allo stesso tempo sono tutti e tre molto vicini: Infatti anche in quest’ultimo troviamo molto marcato il divario fra la possibilità di poter leggere un libro ( che all’epoca significava imparare a leggere e a scrivere) era fondamentale per tutti, ma accessibile solo ai tedeschi. Il coraggio della protagonista è unico, possiamo anche dire che è anche la fortuna che le permette di leggere, cosa che fa riflettere, noi oggi consideriamo leggere un semplice libro segno di libertà e uguaglianza? quanto la società e i valori di essa siano cambiati: in questo film un pezzo di pane aveva un valore molto importante, ma oggi è quasi scontato poter mangiare questo cibo così semplice. Nonostante questo raggio di sole nel buio di tutto il film, il finale è di certo un fra i film più drammatici tra i film sull’olocausto, ma come si dimostra ogni volta, è voluta questa scelta così drastica per far riflettere lo spettatore, o il lettore.
SUONI
L’orchestra di Terezin
Abbiamo testimonianza di numerosi compositori prigionieri dei lager nazisti, in particolar modo a Terezin, una cittadella trasformata in un ghetto nel periodo dell’olocausto.
La cittadella disponeva di un palco montato nello spiazzo principale, e visto che tra i prigionieri ebrei c'erano anche molti musicisti, i detenuti ne approfittavano e si esibivano davanti a tutti come una vera orchestra.
Era infatti come un campo per privilegiati, per coloro che riuscivano a far parte dell’orchestra che infatti, avevano un periodo di vita maggiore, ma anch’esso con un termine…
La musica a Terezin non fu sin da subito autorizzata; in un primo tempo, infatti, chiunque venisse trovato in possesso di uno strumento musicale veniva giustiziato.
Per i musicisti all'interno del campo si ebbe così un'estrema difficoltà a reperirne: violini, violoncelli, e contrabbassi venivano perciò introdotti illegalmente all'interno del ghetto, mentre già erano presenti nelle sale della Kommandantur (gli uffici del ghetto) un pianoforte non più perfettamente funzionante e, nella chiesa, un harmonium.
Le prime prove e i primi concerti avvenivano di nascosto nella vecchia caserma e nei sotterranei, ed erano perciò aperti soltanto ad una cerchia molto ristretta di persone.
Solo in un secondo momento, come afferma Gabriele Manca, le SS si resero conto di poter approfittare della necessità degli artisti di fare musica per i loro scopi di tortura, e legalizzarono l'attività musicale, senza però accorgersi di innescare "una macchina formidabile di resistenza". I concerti divennero all'ordine del giorno, e vennero messe in scena più volte opere come La serva padrona di Pergolesi, Il flauto magico di Mozart, La sposa venduta di Smetana.
Ma l'apoteosi dell'attività musicale in Terezin si ebbe sicuramente con la messa in scena del Requiem (Missa pro defunctis) musicato da Giuseppe Verdi, un nome sconosciuto per la gente comune del posto. Il direttore Rafael Schöchter, internato nel campo, riuscì infatti, non senza imprevisti e problemi, a formare un'orchestra di soli detenuti e a eseguire l'opera davanti a un pubblico di sole SS.
Molti dei musicisti, infatti, proprio nei giorni delle prove vennero deportati definitivamente ad Auschwitz dove infine molti dei musicisti morirono.
Addirittura con le voci bianche di tantissimi bambini, venne messa in scena un’operetta dove l’orchestra accompagna appunto il coro, e attori recitavano e cantavano una vera e propria breve storia, la più famosa è stata “Brundibar”.
Aveva sempre uno scopo di guadagno per i tedeschi, che sceglievano di mettere in scena l’operetta durante le visite dei direttori del campi, per dimostrare che in fondo le persone ebree non erano trattate così male come si credeva.
Tutta finzione.
La scelta delle colonne sonore:
Accanto all'attività di composizione di nuovi brani ispirati alla Shoah, si sviluppa sin dai primi anni del dopoguerra, per cercare di riportare in vita la musica suonata nei ghetti come quello di Varsavia o addirittura di campi di concentramento. La ricerca di questo stile musicale, aumenta dopo l’invenzione di numerosi film dedicati all’olocausto e quindi la creazione di colonne sonore per rendere più immersivo e reale le scene e immergere di più nei sentimenti trasmessi dal film lo spettatore anche con caratteri di tipo musicale.
Possiamo infatti mettere a confronto, soffermandoci sempre sul cinema, il famosissimo tema di Shindler's List alla marcia del film Il Pianista, anche semplici colonne sonore dei film precedentemente menzionati o il suono dell’orrore del film La Zona Di Interesse.
Dal Violino…
“In sintonia con le immagini di Spielberg, il compositore si avvicina lentamente agli orrori mostrati sul grande schermo con umiltà e con una bellezza dirompente che si manifesta a ogni raccordo armonico. Si tratta di una tipica composizione drammatica, optando per brillanti riferimenti di genere folkloristico e affiancando il tutto a una direzione d’orchestra semplice, ma altamente efficace.”
La musica d’apertura di Schindler’s List è il cuore e l’anima dell’intera opera musicale.
Al clarinetto…
L'unico brano originale composto per il film Il pianista è intitolato Moving to the Ghetto del polacco Wojciech Kilar. Il tema triste e malinconico ma allo stesso tempo caldo e vivo del clarinetto ci può creare nella nostra testa l’identica immagine del film anche senza vederla realmente. Il pizzicato degli archi scandisce un ritmo regolare come una marcia, ma allo stesso tempo lenta e non che rallenta, che ci fa pensare a persone stanche affaticate e infelici. Il brano finisce con il tema preso dall’orchestra e crea una grande suggestione. forse tutto il risentimento degli ebrei verso i tedeschi, a cui nel film, nessuno avrà il coraggio di opporsi, rischiando la morte?
Al pianoforte…
Il grande successo della pellicola è stato decretato dalla suggestiva e intensa colonna sonora, che rispecchia pienamente la tradizione polacca in merito alla musica romantica. La colonna sonora de Il Pianista rappresenta, infatti, un lungo omaggio al più grande compositore polacco di sempre: Fryderyk Chopin.
All'orchestra intera
Per finire vorremmo parlare del suono dell’orrore, colonna sonora portante ma anche iniziale del film La Zona Di Interesse, scelta forte, ma geniale.
Questo film infatti non si apre con immagini crude o molto toccanti, perché non sarebbero in grado di descrivere in pieno il dolore degli anni dell’olocausto, bensì con quasi dieci minuti di schermo nero e una semplice ma intensa colonna sonora che a tratti mette sensazioni di tristezza e malinconia ma soprattutto di ansia e inquietudine, che appunto come diceva Beethoven, “dove le parole non arrivano la musica parla”.
La chiave di ogni colonna sonora tra queste, quindi è la capacità di trasmettere un’emozione che sia subordinata all’immagine o che arrivi addirittura a sostituirla e ovviamente parliamo di sentimenti toccanti e delicati.
Nel caso della Zona di Interessa a trasmettere queste emozioni non sono temi melodici, ma tuttavia dissonanze piuttosto forti di diversi complementi di un’orchestra.
Il “film che si sente” non è una colonna sonora che irrompe in momenti topici con la classica partitura musicale ma è principalmente tutto quello che sentono con le loro orecchie gli Höss e i loro ospiti. Un rumore di fondo costante, uno sciame di perturbazioni sonore che arriva da oltre il muro di cinta e filo spinato: quello che separa il giardino di casa Höss dal konzentrationslager.
È il suono del genocidio programmato che (noi spettatori sappiamo) è storicamente avvenuto, in quello e in altri campi. Un fuori campo sonoro ostinato, che atterrisce, chiama in causa e tiene lo spettatore in tensione e incollato alla seduta.
Il compositore infatti ha ricercato, studiato e riprodotto i possibili suoni del 1943 e li ha raccolti in un repertorio: colpi d’armi da fuoco, fragore dei forni inceneritori, articolazioni di voci, passi, rumori industriali. Un paesaggio sonoro di morte scientificamente pianificata.
COLORI
La Teoria dei colori del film Schindler's List
L’Olocausto in bianco e nero
Il capolavoro cinematografico di Steven Spielberg, Schindler’s List, ha toccato i cuori di milioni di spettatori in tutto il mondo con la sua potente rappresentazione dell’Olocausto. Tra le molte scene indimenticabili, una in particolare ha catturato l’attenzione e ha suscitato intense riflessioni: quella della bambina con il cappotto rosso.
Nel contesto di un film che presenta la sofferenza umana in modo così crudo realistico, la presenza di questa bambina con un abito così vivido e distintivo ha sollevato domande sulla sua simbologia. Perché Spielberg ha scelto di far risaltare questa figura in un mare di colori grigi e neri?
Il rosso dell’innocenza
Innanzitutto, la bambina col cappotto rosso rappresenta l’innocenza. Nel contesto di un mondo dilaniato dalla brutalità e dall’orrore, la sua presenza serve a mettere in risalto la purezza che viene distrutta dall’oscurità circostante. Mentre gli adulti intorno a lei affrontano le atrocità della guerra, la bambina sembra ignara della portata della tragedia che si sta svolgendo attorno a lei. La sua presenza agisce come una dolorosa reminiscenza della perdita dell’innocenza in un contesto così brutale. Il cappotto rosso può essere interpretato come un simbolo di speranza. In un mondo dominato dal male, il colore vivido del cappotto della bambina rappresenta una luce, un segno di vita in mezzo alla morte.
La morte e la speranza
La scelta di Spielberg di far distinguere il cappotto (senza la bambina) in una scena successiva in mezzo a un mucchio di corpi morti, aggiunge un ulteriore strato di significato. La sua morte sottolinea la vulnerabilità dell’innocenza e la fragilità della speranza in un contesto così devastante. La sua figura dà voce a tutte le vittime innocenti che hanno sofferto durante l’Olocausto, senza distinzione di età. Infine, la bambina col cappotto rosso può essere vista come un richiamo alla responsabilità e alla testimonianza. La sua immagine si insinua nella memoria dello spettatore, costringendolo a confrontarsi con la brutalità della storia rappresentata nel film.
Questa scelta di rappresentazione mira a far sì che il pubblico non dimentichi mai le atrocità dell’Olocausto.
Perforare lo schermo
Spielberg distrugge l’illusione del film, perforando lo schermo cinematografico con l’intensità di un colore che richiama la speranza ma anche il sangue, l’innocenza ma anche la violenza, trascendendo i confini della narrazione e ferendo l’animo dello spettatore senza via di scampo. Tre decenni dopo, possiamo dire che c’è riuscito egregiamente.
Dopo ciò che vi abbiamo raccontato, scegliamo appunto di non allegare immagini, ma i link delle canzoni, perché la musica possa parlare più di ogni altra cosa.
A.D.F. e G.M. 4A Ginnasio
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