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Triste o depresso?



È evidente che la salute mentale non abbia ancora raggiunto la dignità di quella fisica. Mentre le nuove generazioni parlano dell’argomento e lo divulgano sempre di più, quelle precedenti faticano a liberarsi da una concezione ancora manicomiale del disturbo mentale (la chiusura dei manicomi in Italia è stata decretata nel 1978 dalla legge Basaglia) e a mettersi in condizioni di empatia, di ascolto, e accettazione del disagio.

In una società in cui il dolore non esiste se non è visibile l’informazione su tale dolore è inevitabilmente distorta, e spesso si fa l’errore di utilizzare parole di grande importanza clinica in modo improprio, riducendo la condizione da esse identificata a semplice tratto comportamentale, a capriccio occasionale: ma il bipolarismo non è un semplice e indolore cambiamento di umore; il narcisismo non è lo schiribizzo egoista di una persona cattiva; l’anoressia non è sempre e solo eccessiva magrezza; e la depressione non è tristezza.

Ma allora, cos’è la depressione? Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, più che di depressione si dovrebbe parlare di depressioni: infatti, all’interno del capitolo sui disturbi depressivi vengono affrontate diverse sindromi (disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, depressione maggiore, disturbo depressivo persistente e disturbo disforico premestruale), tutte accomunate da tangibili modificazioni del tono dell’umore. Quest’ultima precisazione è cruciale, poiché è ciò che distingue la depressione dalla semplice tristezza. Nel corso della vita a tutti capita di attraversare momenti difficili e di fare i conti con emozioni sgradite; ma per chi soffre di un disturbo dell’umore tali momenti si dilatano fino a diventare la normalità, compromettendo gravemente il funzionamento sociale, relazionale e lavorativo del soggetto. L’individuo depresso potrebbe sembrare inconcludente e svogliato, talmente focalizzato sulle proprie sensazioni da risultare egocentrico e indifferente agli altri, pesantemente autocritico. In realtà, questi atteggiamenti hanno una radice profonda e malata, che spesso non si ha la pazienza di considerare: si tende invece a svalutare i segni, così come i sintomi della depressione e a credere di poterli alleviare con strumenti che forse sarebbero utili a una persona triste, ma non lo sono per una depressa, la quale quasi sempre non è nemmeno in grado di identificare la ragione del proprio dolore. Un’altra particolarità dei disturbi depressivi è appunto quella di non poter essere collegati direttamente a un evento scatenante; questo confonde terribilmente la persona depressa, che vorrebbe saper tradurre in linguaggio ciò che prova per farsi capire meglio, ma non ne risulta capace.

Gli studi hanno evidenziato come il fenomeno depressivo si manifesti da 1,5 a 3 volte più frequentemente nelle persone che hanno familiari depressi. Quindi è ragionevole credere che il disturbo sia geneticamente determinato e che un evento traumatico o un periodo di stress prolungato non siano sufficienti a determinarlo, ma possano solo innescarlo o peggiorarlo. Inoltre, la depressione deriverebbe da alterazioni del tessuto nervoso e della sua funzionalità: la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina e la noradrenalina sarebbe compromessa, così come quella di molti altri sistemi monoaminergici.

La depressione non è dunque un’emozione, ma una situazione patologica dalle mille sfaccettature che richiede un percorso terapeutico e spesso anche farmacologico. È bene ricordarlo e ripensare le proprie abitudini linguistiche per evitare di continuare ad assimilare un disturbo invalidante e potenzialmente mortale a un’esperienza emotiva comune e talvolta “sana”, come la tristezza.

A.B., 2B CLA.

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