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Scorsese, Hobbes, Stati Uniti

“Killers of the Flower Moon” nasce non solo da una storia vera, ma da molte altre storie di “homo homini lupus”, direbbe Hobbes. Parla dell’uomo che approfitta degli altri uomini, che guadagna sulle spalle degli altri e si disinteressa del dolore altrui.


La pellicola è l’ultima arrivata nella filmografia di Martin Scorsese, forse uno dei più grandi registi mai esistiti, autore di, tra gli altri, “Taxi Driver”, “Toro scatenato”, “Gangs of New York”, “The Wolf of Wall Street”. Insomma, nonostante forse il nome non vi faccia suonare qualcosa in mente, dei suoi film tutti – sia che vi troviate rinchiusi nella prigione di Azkaban o che siate l’intelligenza artificiale abbandonata nello spazio della Discovery – tutti dovreste averne sentito parlare, nonostante “Killers of the Flower Moon” ci abbia messo un po’ a uscire. Pensate che dal suo ultimo film, “The Irishman”, sono passati quattro lunghi anni, ma Scorsese lavora a questo film dal 2018, complice il COVID-19, anno in cui ha acquistato i diritti di un saggio, intitolato “Gli assassini della terra rossa”, e ha contattato Di Caprio e De Niro, main stars del lungometraggio.

Avete capito bene, un film che nasce da un saggio, e non da un romanzo, un fumetto, una graphic novel o comunque un’opera narrativa. Scorsese ha deciso di basare questo film, mattone da 3 ore e 45 minuti, sulla pura e purissima realtà, per dimostrare come l’uomo sappia essere uomo più che mai, meglio che mai.

“Killers of the Flower Moon” è un noir ambientato in Oklahoma degli anni ’20, terra della tribù nativa americana Osage. Ci viene rappresentata come una terra deserta degna dei migliori western, ma durante un rito, purtroppo o per fortuna, a dei nativi capita di trovare un giacimento di oro nero, l’oro dei bianchi, il petrolio. Vediamo i nativi ballare attorno al getto color pece che esce dalla terra, bagnarsi la faccia, i capelli, festeggiare, poi ci vengono mostrate delle foto (vere e di allora) di loro che si imborghesiscono, perdono i loro costumi grazie al denaro, comprano macchine di lusso, autisti bianchi, condividono tra loro i soldi, perché la terra è proprietà di ciascuno di loro e tutti se li meritano (in barba all’idea statunitense di proprietà!).

Ma sapete qual è la qualità maggiore, almeno secondo allora, del bianco? È dannatamente senza scrupoli e un calcolatore nato. Iniziano, quindi, a trasferirsi in terra di Osage moltissimi bianchi per lavorare nelle miniere. Così comincia un vero e proprio trend: sposarsi con le donne native per avere la possibilità di ereditare e manovrare il capitale della loro famiglia.

Solo dopo queste premesse ci viene presentato Ernest, interpretato da Di Caprio, nipote del “Re” Hale, interpretato da De Niro. Ernest è un codardo, disertore durante la prima guerra mondiale, a cui viene posta da suo zio la cruciale domanda:

“Ti piacciono le donne, figliolo? Le pellerossa, ti piacciono le pellerossa, figliolo?”

Inizia così la ricerca di amore, o per meglio dire di capitale, del giovane Ernest, che adocchia subito una ragazza a cui fa da autista, Molly, con cui poi si sposerà e che, forse per ironia della sorte, nell’ultima parte del film lui dirà di amare con tutto il cuore (e forse è davvero così!) durante il processo avviato dall’FBI, appena nato allora, per numerose e misteriose morti che coinvolgono tutta la comunità nativa, in particolare la famiglia di Molly.

Non proseguiamo oltre con la trama per evitare di incorrere in spoiler. Sappiate che questo genere di Noir, come forse potreste aver capito dalla trama, è un genere “neorealista” caratteristico di Scorsese, portato all’estremo, con personaggi assolutamente imperfetti (Ernest è un ignavo ambiguo fino all’ultimo istante del film). Le morti dei personaggi, che già nel cinema neorealista erano squallide, inutili, sono ancora di più anti-climatiche, non esaltate ma, spesso, nascoste e non inquadrate, se non prese di sfuggita. È come se Scorsese ci ricordasse di come il genocidio sui nativi sia stato nascosto, celato, merito di sotterfugi e non di una vera e propria guerra. Spesso nel film vengono compresi spezzoni di film di quei tempi, cinegiornali, che mostrano ed esaltano membri del Ku Klux Klan, della nascita del grande stato americano. In questa pellicola, però, non hanno la funzione che un centinaio di anni fa si voleva che avessero: sono messi in esame dal vero giudice dell’opera, lo spettatore, che è chiamato a giudicare sull’esistenza degli Stati Uniti, che hanno trovato la loro ricchezza nel sangue.

C’è stato un vero e proprio studio del luogo e una conoscenza dei nativi americani e della loro cultura, tant’è vero che il Neorealismo è incentivato dall’utilizzo di luoghi reali come ambientazioni, illuminazione naturale e tematiche reali. La manipolazione attuata dai grandi capi d’azienda per avere sempre di più di più di più, il ragazzo nativo che, tradito dalla moglie, “si sente la tristezza dentro” e che ha quindi problemi di alcolismo in un’epoca in cui la depressione non veniva curata, il nepotismo di Hale e la sua doppia faccia e tantissime altre tematiche. Nonostante sia un film ambientato negli anni ’20, i suoi temi sono stranamente più attuali che mai.

A distanza di cent’anni non siamo così diversi, l’uomo come popolo intero, da quei corrotti uomini che sfruttavano il prossimo per le proprie necessità, non curandoci della sofferenza che causiamo. I fiumi in Lesotho e Tanzania, per esempio, sono colorati di un blu scuro e hanno un pH di 12. Questo deriva dalle scorie rilasciate dall’industria del denim, che scarica i propri rifiuti nel mare. Da dove pensate vengano i vestiti comprati su Shein a 10, 15€ se non dalle mani di un lavoratore sottopagato in Cina, India, Nepal o Vietnam? Se persino le scarpe della Nike vengono da lì, perché dovrebbero farsi scrupoli? Persino le componenti del dispositivo da cui state leggendo questo articolo, principalmente il litio e cobalto, derivano dal lavoro in miniera in Africa, ricchissima di questi materiali e perciò strumentalizzata, in cui un piccolo rosso malpelo (che parla una lingua differente, un po’ più scuro, ma molto simile al ragazzino della novella di Verga) scava per cercarlo. Non siamo qui per fare la solita predica, alla fine stiamo solo recensendo un film, ma è importante sottolineare

che l’uomo, nonostante passino decenni, centenni e millenni, rimane l’homo homini lupus di Erasmo, di Bacone, di Hobbes, di Verga e, ora, di Scorsese.

“Can you find the wolves in this image?”

D. P. e O. B.

5B Scienze Umane e 2B Classico

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