L’estate, si sa, è un periodo di partenze. Ci si allontana, almeno idealmente dalla solita routine per re-imparare come ogni anno a lasciarsi andare, a dimenticare le incombenze più pressanti, quando anche il sole rivendica il suo diritto di brillare fino a sera inoltrata. Le abitudini, che si credevano dimenticate, riaffiorano, come se un onda lunga un anno si fosse lentamente ritirata, scoprendole con indolenza. Ci si riappropria gradualmente delle ore perse fra la fretta dell’inverno, si scelgono mete, posti nuovi, si riempiono valigie, anche troppo a volte e poi, in un momento, ci si ritrova lì, seduti accanto a qualche sconosciuto scontroso, con solo un finestrino a farci compagnia. Il paesaggio scorre veloce quanto i nostri pensieri, lasciando dietro di sé la nostra quotidianità, come un vestito indossato troppe volte, che si vuole dimenticare per un po’. Capita poi, persino, che il paesaggio che ci passa veloce sotto gli occhi sembri rispecchiare le nostre emozioni e, allora, quello che vediamo non siano più soltanto macchie verdi o azzurre, né semplici nuvole quelle in cielo: la natura sembra ascoltare la nostra storia, volerla raccontare per condividerla e far sì che anche gli altri la riconoscano e si sentano compresi. È questa la grande qualità dell’estate, il fatto che i suoi colori, con i suoi paesaggi sempre nuovi, siano in realtà il racconto di ciò che siamo, un luogo sconosciuto in cui ritrovarsi inaspettatamente. Così vuole essere perciò questa rubrica estiva, in cui mi auguro che le parole che troveranno spazio, siano quelle della storia di ognuno di noi.
Elena,
II B Class.
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