Asfissia!
Infiltrandosi fra le foglie di Corso Francia, un delicato vento mattutino giungeva frusciando alle orecchie dell’unica donna sveglia nell’intero palazzo. Tagliava il silenzio dello stanzone in scompiglio all’ultimo piano, insieme ad esso il persistente ticchettìo dell’orologio in stile boulle, lo scorrere rigido di una penna sul suo foglio e il modo in cui veniva inzuppata nel calamaio dalla suddetta, e il ronfo dell’altro giovane dormiente a tre passi da lei. Elvira scriveva fra tanti sbadigli. Ogni tanto si voltava e lasciava che la vista della tozza figura nascosta sotto alle lenzuola bianche le riempisse il cuore di tenerezza. Solitamente vispi e vigorosi come ogni altra diciottenne, a quella buon’ora gli occhi le pesavano come macigni, eppure non volle saperne di dare retta alle sue membra assonnate e sdraiarsi ancora per un po’: se le sue mani si muovevano lente e stanche, e se la sua schiena sotto alla sottile vestaglia stava ricurva come quella di un monaco amanuense, il suo cervello al contrario straripava di pensieri troppo veloci e chiassosi per ignorarli e rimandarli. Così la luce dei due candelabri illuminava man mano questi segni neri sulla carta, uno sfogo fulmineo:
“Torino, sab. 16 febbraio 1884
Carissima Adele, perdona la prolissità di questa lettera, ma non posso proprio aspettare fino a chissà quale giorno ci rincontreremo per dirti ogni cosa. Morirei d’ansia prima di arrivarci e sarebbe tutta colpa tua e della terribile influenza che ti ha impedito di partecipare alla cerimonia di ieri! Nel mio giorno speciale ti avrei voluta ancora una volta accanto a me, come quando eravamo bambine...Ma ormai è inutile piangere sul latte versato. Adesso ho solo cose amene da raccontarti, per cui tieniti pronta!
Pietro si è rivelato una persona deliziosa. Te l’avevo detto, mio padre non mi avrebbe mai Sottolineò la parola “mai” come per suggerire l’intonazione) promessa a qualcuno per pura convenienza, senza prima assicurarsi che fosse un tipo ammodo. Pensa che si sono incontrati proprio nell’albergo dove alloggiamo adesso, un anno e qualcosa fa, e lì è iniziatala loro amicizia commerciale, ma soprattutto (!!) personale. Non che la tua preoccupazione fosse insensata poi, per carità, è vero che in due settimane non si può conoscere qualcuno a una profondità tale da sposarselo... Non può che essere colpa di Cupido, allora, se abbiamo passato la notte migliore della nostra vita. Chiaramente i dettagli più sdolcinati e licenziosi te li risparmio, perché annotarli così su un foglio mi imbarazza... Per ora ti basti sapere che io e mio marito (che strano sentirmelo dire, mio ma-ri-to!) abbiamo parlato e parlato di tutto, ridendo fino a notte inoltrata. C’è un’intesa tale tra noi da farci tornare bambini, credimi! Abbiamo bevuto le bottiglie di vino avanzate dal banchetto direttamentequi in camera, verso mezzanotte... Vedessi che macello abbiamo fatto dopo! Ho persino avuto difficoltà a farmi strada dal letto alla ribaltina per quanti fiori ci sono per terra.
Probabilmente in un momento di follia abbiamo disfatto, lanciato e sparpagliato il bouquet e le varie decorazioni, ti confesso che ricordo ben poco. Comunque, non mi rammarico della fine che hanno fatto:
‘Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola
e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà.’ ... Be’, non mi ricordo chi lo disse.
Quindi, ecco, il mio dispiacere va alle addette alla pulizia piuttosto che agli addobbi disfatti. Mi sento proprio in colpa, in realtà. Hai presente quando, da ragazzina arrogante che ero, mi compiacevo e vantavo con te e Caterina tutte le volte che tornavo da una qualche città? Quando credevo che l’apice del lusso fosse spostarsi di una trentina di chilometri al massimo e andare a teatro o seguire mio padre nei caffè come un’ospite insolita e che rasentava il trasparente? Dimenticateli (e perdonami). Qui è troppo, mi sento fuori luogo, mi hanno come messa su un piedistallo sottile alto come il Mont Blanc e io sono mezza zoppa e non so starci in equilibrio, e poi...”
E poi c’erano ancora tante cose che avrebbe voluto scrivere. Ad esempio, voleva polemizzare sulla veduta industriale del davanzale, sulla frenesia dei cappelli a cilindro che avevano incontrato al check-in e lungo la strada in carrozza; le avrebbe detto che sentiva già l’amarezza della lontananza dalla casa d’infanzia, la malinconia dei giorni passati insieme all’amica a giocare sulle stradine strette che collegavano le loro abitazioni, tra le colline fra Vignale e Casorzo; l’avrebbe poi rassicurata, promettendole di spedirle lettere e cartoline per ogni singolo giorno che avrebbero passato separate e infine avrebbe abbellito la busta con il più bel timbro per ceralacca che aveva.
Però la interruppe sentire la mano nodosa del marito sulla propria spalla, che tra l’altro copriva completamente dall’inizio della clavicola all’omero. Girando la testa, incontrò un’espressione indecifrabile. Anzi, talmente fuori contesto da confonderla, ma decifrabilissima. La stava squadrando freddo e severo, con una stretta fredda e severa, e lei non capiva perché. Prima che potesse dire una parola, lui la lasciò andare. «Vado a chiedere la colazione.» le disse allontanandosi a passi ben distesi. La porta si chiuse con una forte botta, Elvira fece in tempo a pronunciare soltanto un fievole “sì” che era certa non si fosse sentito. Come lui uscì, il quasi silenzio rientrò, ma stavolta era meno sereno. Il ticchettio dell’orologio si fece intimidatorio e angosciante alle orecchie della fanciulla; ogni secondo le sembrava una gabbia e ogni minuto scandito una spietata incitazione a liberarsene invece di restarsene seduta ad aspettare una rivelazione dal cielo. Quando raggiungeva il dodici, la lancetta lunga diceva: “Muoviti, muoviti, muoviti! Esci da quella porta e vai a cercarlo!” e lei, prettamente, si ripeteva di darle retta al giro successivo. Il processo si ripetè una ventina di volte, fino a che si decise ad alzarsi pian piano dalla sedia, come per non essere di troppo disturbo alla mobilia, per poi aprire vergognosamente la porta e sbirciare nel corridoio dallo spiraglio creato. Vide immediatamente che si stava avvicinando tutta frettolosa una cameriera che spingeva un piccolo carrello imbandito di frutta, pasticceria, pane, burro, biscotti a volontà, ma anche alcune bevande calde che minacciavano, ondeggiando, di rovesciarsi ogni volta che le rotelline passavano sopra a una trave di rovere del pavimento. La signora cercava con lo sguardo perso un certo numero di camera, poi si fermò bruscamente proprio davanti a quella dei novelli sposi; il sospiro infastidito nel rendersi conto della testa che sbucava da dietro l’anta sembrò farla uscire dalla sua trance e accendere i suoi occhi grigi. Tentò di tirare goffamente la maniglia verso di sé, ma Elvira la bloccò con un piede. «Lasci, faccio io, grazie...»
Non era gentilezza, solo che non voleva ricevere una sfuriata per lo stato pietoso in cui versava la stanza. Ciò che non poteva evitare, tuttavia, era la sua inaspettata paternale (per meglio dire, maternale).
«Suo marito è fuori a fumare sul marciapiede come un disperato, e ha tutta l’aria di esserlo davvero! Se non sono indiscreta, cara, cos’hai fatto?» “È assolutamente indiscreta. Ma poi in che modo sarebbe colpa mia?” Fu il suo primo pensiero, ma non disse questo, anzi rispose d’impulso: «Non saprei.» «Lui ha bevuto, non è vero?» In effetti... «Sì, ecco! Verrà da lì questo suo malumore, sa come sono i postumi di certe sbronze...» «No, io non lo so.» Non cogliendo il giudizio e la ripugnanza emanata da quella risposta, la giovane reagì ridacchiando. «Beata lei!» Rise da sola. L’imbarazzo per la situazione non durò a lungo perché la cameriera lasciò andare il sontuoso banchetto ed iniziò ad avviarsi verso da dove era venuta, e con quel passo reso rumoroso dai tacchi bassi sembrava pavoneggiarsi della precisa ed elegante acconciatura di capelli biondi e bianchi. Mormorava qualcosa sulla sciatteria, qualche “che vergogna”, un po’ di aforismi sul decoro che dovrebbero tenere le ragazzine come lei, anziché ubriacarsi come fanno i barboni nelle osterie dalla cattiva reputazione. Elvira si sarebbe quasi offesa, se solo la madre non l’avesse già addestrata ai tempi delll’infanzia a una sovrumana capacità di sopportazione per commenti come quelli attraverso una bruta terapia d’urto. Così tacque e si trascinò al seguito il carrellino creando in tal modo qualcosa di simile ad un sentiero artificiale fra i fiori e le foglie. Dopo aver apparecchiato il tavolo, lo calciò con cura e le rotelle cigolanti lo portarono in un angolo vicino all’entrata. «Si sono svegliati tutti con la luna storta, stamattina?...» Si disse in mezzo a un sospiro mentre si sedeva. Non troppo dopo, Pietro fece il suo ritorno. Paradossalmente rasserenata dal suggerimento della signora pettegola, cioè che l’amato si sentisse male solamente a causa della bevuta della sera prima, a discapito di tutto il timore che aveva provato quando se ne era uscito, Elvira gli pose la famigerata domanda con disinvoltura e un’aperta solidarietà, non appena egli prese posto:
«Tesoro, che succede? Per caso non ti senti bene?» Lui replicò mostrandole il palmo della mano come per dirle di aspettare.
«Mangia.» Aggiunse con il tipico tono ‘vieni qui, non ti faccio niente!’ di chi ha tutta l’intenzione di fare qualcosa, invece. Ciò che voleva dirle, a quanto pare, voleva dirglielo a stomaco pieno (quindi o era di scarsa importanza, o lui era un animale); e così mangiarono e bevvero, lui con gli occhi bassi, lei che li scrutava in cerca di un segno di qualunque tipo. Ogni tanto la fanciulla tossiva con le manine affusolate davanti alla bocca, si dondolava sulla sedia, picchiettava la punta delle pantofole sul pavimento, si scrocchiava le dita ed in generale compiva piccoli movimenti e suoni per ricordare all’uomo la sua presenza in maniera discreta. I suoi gesti non furono ben accolti: a una certa il tavolo ricevette un cazzotto che fece saltare per aria le briciole e tremare le tazzine mezze vuote. Se gli sguardi potessero uccidere, quello di Pietro l’avrebbe freddata all’istante. «Si può sapere cos’hai?!» proruppe lei, e intanto retrocedeva con la sedia. «Non lo sai? Oh, secondo me lo sai.» «No! Finiscila e dimmelo!» Dopo un respiro profondo trepidante di rabbia, Pietro si alzò e la trascinò per un polso verso il letto, facendola inciampare e finire in ginocchio davanti ad esso. «Che cosa vedi lì, Elvira?» Smarrita ma arrabbiata, guardò sotto al letto, attorno ad esso, sollevò le lenzuola, controllò i cuscini, la spalliera e persino le doghe. «Niente.» «Esatto, niente. Nemmeno... Una goccia di sangue.» Ora. La sposina era appena maggiorenne, non aveva molte amiche e nessuna di quelle che aveva erano più grandi, più libertine e più esperte di lei; la madre era una puritana figlia di puritani, quindi ne sapeva tanto quanto lei; il padre era sempre stato riluttante nell’accettare che la sua bambina fosse ormai cresciuta, per cui non accennava mai nemmeno lontanamente alla sfera della procreazione e della sessualità. Non poteva conoscere il concetto di imene, tantomeno poteva sapere ciò che certa gente farà fatica ad accettare persino 140 anni più tardi, ossia che può succedere che una donna nasca senza quella sottile membrana, o che essa venga lacerata senza dolore praticando sport.
«... E quindi?» Partì il primo calcio, poi il secondo e via così. Pietro sputava accuse di adulterio, ripeteva “puttana!” e altri insulti, le vene della fronte e del collo gonfie dal furore parevano sul punto di scoppiare; ma anziché rannicchiarsi per la fitta di dolore al fianco sinistro, la ragazza balzò in piedi e mirò alla faccia con un pugno. Il colpo finì in un capitombolo invece che contro all’omaccio, il quale aveva deviato la direzione del polso più in là con la stessa facilità con cui si schiacciano le zanzare. Le percosse che seguirono quella sua mossa non si possono descrivere a parole, solo attraverso le grida agghiaccianti che si udirono in tutto il quartiere. Si conclusero solo quando Elvira, grondante di lacrime, si ritrovò sollevata a mezzo metro da terra e incapace di respirare, con la schiena contro il mobile su cui prima stava scrivendo la lettera all’amica. «Sai...» Prese a dire il verme, perfettamente consapevole di star per iniziare un monologo, siccome la sua interlocutrice non aveva alcuna possibilità di rispondere. «Ti avrei perdonata, lo avrei fatto davvero! Per amore del quieto vivere avrei lasciato correre, nonostante il ribrezzo che mi suscita la tua depravazione.»
La vista della vittima iniziava ad offuscarsi... «Invece hai deciso di fare doppiamente la cagna, hai avuto il coraggio di prendertela persino con il tuo consorte, dopo averlo ingannato. La colpa è solo tua. Tu me lo stai facendo fare.» Accesa forse un’improvvisa lucidità dovuta all’appressamento della morte, come quella dei malati di demenza, d’un tratto la ragazza si ricordò un dettaglio fatale. Ci vollero giusto un paio di secondi, il tempo di allungare il braccio dietro di sé, nel buio, e riportarselo davanti, che Pietro ricevette inaspettata una pallottola nel petto. Era troppo concentrato sul bel viso di fronte a sé, su come passava dal bordò, al viola, al blu, per accorgersi che la piccola moglie si era armata. Caso volle che il piombo si incastrò proprio nel suo ventricolo sinistro, poi un altro gli forò un polmone da fronte a retro. Riuscì a fare solo qualche passo indietro prima di accasciarsi a terra.
Il colpo fu inaspettato anche per Elvira, in realtà: “Chissà come mai era già carica...” pensava mentre finalmente l’aria riempiva di nuovo le sue narici e la sua bocca con il suo odore di fiori un po’ appassiti e di metallico, di sangue. E come lei prendeva fiato, lui ne perdeva contorcendosi nella pozza sul pavimento, e coprendosi la ferita somigliava a un pazzo che tenta di svuotare il mare con le mani. Non molto tempo più tardi, il silenzio tornò molto gradito. Con la vestaglia color latte spruzzata di rosso, la miracolata si sedette sul pavimento, esausta dai colpi subìti ed esaltata dal miscuglio di emozioni primitive che le agitavano il cuore. Riprese fra le dita la penna e la lettera lasciata a metà, accartocciandola goffamente per sbaglio.
“Ho ucciso mio marito” riprese usando le ginocchia come scrittoio, peggiorando enormemente la sua calligrafia prima così nitida e composta. “Qualcuno dal cielo ha guardato nel mio destino e vi ha riconosciuto quello di tante mie sorelle. Quel qualcuno mi ha dato la possibilità di sottrarmene” Si fermò. Scrivere le faceva un gran male. Posato tutto, si guardò il retro della mano e le fu chiaro dai segni di sporco che doveva essere stata calpestata a un certo punto della rissa. Una volta ricomposta, tracciò diverse righe sulle due frasi precedenti.“Io mi sono sottratta al destino di tante mie sorelle, immagino. Se fossi stata condiscendente, comprensiva, calma e delicata nel chiedere rispetto, come si fa con certi bambini capricciosi, a quest’ora forse starei finendo il mio caffè allungato alle lacrime in nome di una lunga vita di umiliazione santificante. Non l’ho fatto. Mi fa male tutto, ho paura,non ho modo di fuggire da qui ed eludere l’arresto.” E infatti, si sentivano i primi bussi sulla porta. Come potevano i vicini di camera e il personale non aver sentito nulla di quel putiferio?
Elvira si alzò in piedi, e sogghignando e barcollando per la stanza come una menade con il foglio in mano, passando sul corpo esangue di quello che era suo marito, si lasciò cadere di schiena sul canapé. “Mi è dolce questo dolore. Mi è dolce perché, in fin dei conti, morirò come dico io; non tra vent’anni anni con la testa ancora bassa, non chiedendo scusa per un malinteso di troppo, non racimolando un po’ di respiro come un bimbo povero che chiede l’elemosina, ma su un letto di fiori bellissimi, annaffiati dal sangue di chi li ha calpestati.”Alzò leggermente lo sguardo, andò a rileggere quanto scritto poco più sopra un’oretta prima: “Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà.” - Robert Herric. E forse per tutte le botte, forse per l’asfissia, forse per una grazia, morì infine contenta.
M.F. 5BSCU
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