C’è un momento, dopo ogni sparatoria di massa, in cui il silenzio diventa quasi assordante. È il silenzio che segue il rumore degli spari, quello in cui i notiziari contano le vittime, le famiglie cercano notizie, e una società intera si chiede come sia possibile che tutto questo accada ancora. Eppure, nonostante lo shock iniziale, il fenomeno delle sparatorie di massa continua a ripetersi con una regolarità inquietante, soprattutto in alcune parti del mondo, trasformando quella che dovrebbe essere un’eccezione in una tragica abitudine. Parlare di “mass shooting” oggi non significa solo descrivere episodi di violenza estrema, ma interrogarsi su modelli culturali, scelte politiche e responsabilità collettive.
Con l’espressione "mass shooting" si indica una sparatoria in cui una o più persone aprono il fuoco contro civili in un luogo pubblico o semi-pubblico, causando numerose vittime in un arco di tempo limitato. Sebbene le definizioni possano variare, molte istituzioni e centri di ricerca considerano mass shooting gli eventi con almeno quattro persone colpite, escluse l’aggressore. Questi atti non sono fenomeni casuali né puramente individuali: nascono dall’intersezione di fattori come la facile accessibilità alle armi da fuoco, la radicalizzazione ideologica, il disagio psicologico, la marginalizzazione sociale e, soprattutto, una cultura che in alcuni contesti normalizza l’uso delle armi come strumento di difesa, potere o identità.
Negli Stati Uniti il problema di queste sparatorie assume dimensioni particolarmente gravi. Il diritto al possesso di armi da fuoco è sancito dal Secondo Emendamento della Costituzione ed è profondamente radicato nell’immaginario nazionale. Questa impostazione storica e culturale ha contribuito a una diffusione capillare delle armi, rendendo gli Stati Uniti il paese sviluppato con il più alto numero di civili armati pro capite. Secondo dati riportati da BBC e Reuters, negli USA si verificano centinaia di sparatorie di massa ogni anno, con episodi che coinvolgono scuole, università, supermercati, luoghi di culto e campus universitari. Proprio le università e scuole minori, simboli di crescita intellettuale e dialogo, sono diventate negli ultimi anni spazi vulnerabili, colpiti da atti di violenza armata che lasciano segni profondi non solo nelle vittime dirette, ma nell’intera comunità accademica. Ogni volta che un mass shooting avviene negli Stati Uniti, la reazione politica segue uno schema ormai prevedibile: dichiarazioni di cordoglio, bandiere a mezz’asta, messaggi di solidarietà e appelli alla preghiera. Tuttavia, raramente queste tragedie si traducono in riforme incisive sul controllo delle armi. Il dibattito rimane fortemente polarizzato tra chi difende il possesso di armi come diritto individuale inviolabile e chi chiede regolamentazioni più severe per tutelare la sicurezza collettiva. Il risultato è una sorta di paralisi politica che contribuisce alla percezione, sempre più diffusa, che la violenza armata sia diventata una componente “normale” della vita pubblica americana.
Negli ultimi giorni però, dopo un weekend di lutto sia per gli USA che per lo stato Australiano a causa delle sparatorie colpevoli di diverse vittime ed entrambe avvenute il 14 Dicembre scorso, rispettivamente alla Brown University e alla Bondi Beach di Sydney, la concentrazione si è focalizzata sul confronto con l’Australia, mettendo in evidenza quanto le scelte politiche possano incidere concretamente sulla sicurezza di una società. Dopo il massacro di Port Arthur del 1996, che sconvolse profondamente il paese, il governo australiano introdusse una delle riforme sul controllo delle armi più severe al mondo, vietando molte armi semiautomatiche, rafforzando i controlli sui proprietari e avviando un vasto programma di riacquisto delle armi. Nei decenni successivi l’Australia ha registrato un drastico calo delle sparatorie di massa e delle morti per arma da fuoco. Questo ha contribuito a creare una cultura diffusa in cui il possesso di armi non è percepito come un diritto identitario, ma come una responsabilità eccezionale e rigidamente regolata. Proprio per questo, i recenti episodi di violenza armata riportati dai media internazionali in quest’ultima hanno avuto un impatto emotivo enorme. In un paese dove attacchi armati sono rarità, ogni singolo evento viene vissuto come un trauma collettivo che scuote la fiducia nella sicurezza quotidiana. Le reazioni istituzionali sono state immediate e decise: il primo ministro australiano ha parlato apertamente di odio, estremismo e necessità di rafforzare ulteriormente i controlli, mentre la popolazione ha risposto con veglie, manifestazioni di solidarietà e un forte sostegno alle comunità colpite. Questo atteggiamento riflette una mentalità diversa, in cui la violenza non viene accettata come inevitabile, ma riconosciuta come un fallimento da correggere. Il contrasto tra Stati Uniti e Australia non riguarda solo il numero di mass shooting, ma soprattutto il modo in cui le società reagiscono a essi. Negli USA la frequenza degli episodi rischia di generare assuefazione, un senso di impotenza e rassegnazione. Nella seconda, al contrario, la rarità di questi eventi rafforza la convinzione che la prevenzione sia possibile e doverosa. Le differenze emergono anche nelle risposte politiche: mentre negli USA le dichiarazioni dei leader, incluso il presidente Donald Trump di cui la dichiarazione a riguardo l’ultima tragedia armata su suolo americano e universitario è stata “things can happen”, si concentrano spesso sulla condanna morale e sul lutto senza mettere in discussione il sistema di accesso alle armi, in Australia il dibattito pubblico tende a tradursi più rapidamente in riflessioni legislative e misure concrete.
Di fronte a questo quadro, ritengo che il fenomeno delle sparatorie di massa non sia una fatalità né un prezzo inevitabile della libertà, ma il risultato di scelte politiche e culturali precise. Accettare che studenti possano essere uccisi mentre studiano o che famiglie possano essere colpite mentre partecipano a eventi pubblici significa rinunciare all’idea stessa di sicurezza collettiva. La libertà individuale non può essere separata dalla responsabilità verso gli altri, e nessun diritto dovrebbe avere come conseguenza sistematica la perdita di vite innocenti. L’esempio australiano dimostra che intervenire è possibile e che politiche rigorose sul controllo delle armi possono salvare vite umane senza distruggere il tessuto democratico di una nazione. Continuare a normalizzare la violenza armata, invece, significa accettare un futuro in cui il silenzio dopo gli spari diventa sempre più frequente e sempre più vuoto di cambiamento.
S.M., 2B CLA.

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