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Cultura dello stupro

Non lodate le bambine per la loro bellezza.
A loro non interessa diventare “belle” finché voi non glielo dite.
Complimentatevi per la loro forza, per la loro intelligenza e per la loro capacità.
Fate sì che credano nelle loro qualità oltre che alla loro bellezza.
Insegnate loro che il loro valore non è commisurato al loro aspetto.

Perché parlare di cultura dello stupro?
Nella nostra cultura, storicamente lo stupro è normalizzato, giustificato e incoraggiato. Ancora oggi persone pensano: sì è grave, ma c’è di peggio. Oppure: magari lo voleva anche. E ancora: se l’è cercata. Ancora oggi si continua a dire che le donne sono viste come oggetti sessuali, dei quali disporre a proprio piacimento. La cultura dello stupro è alimentata da numerose frasi tipiche, oscene e scurrili, intonate come dei ritornelli anche dalle stesse donne, alle volte maschiliste quanto molti uomini. Negare il problema non ci aiuterà a uscire da questa situazione o a migliorarla.
Negare anche solo l’esistenza della cultura dello stupro, è già applicarla. Basti pensare che fino a pochi anni fa, all’interno del matrimonio, lo stupro era legale e lo stupratore poteva decidere di sposare la vittima per evitare il carcere.
Stupri di guerra
Ogni volta che sentiamo parlare di guerre pensiamo agli uomini che vanno al fronte a combattere, uomini che vengono uccisi, torturati. Se ne parla, però, come se nelle guerre solo gli uomini subissero. Milioni di donne, anche bambine e ragazze, sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale (e così in molte altre) sono state stuprate, catturate e costrette a “vendersi”, a fare da schiave sessuali.


Il madamato 
Nelle guerre a pagare il prezzo più alto sono state le donne, non solo costrette a vedere mariti, genitori, fratelli o figli uccisi o costrette a fuggire dai propri villaggi, ma anche costrette ad essere oggetti di piacere sessuale per gli invasori, che in questo modo rivendicavano il loro diritto alla conquista, equiparando le femmine locali al territorio appena guadagnato, di cui potevano disporre come meglio credevano.

Per lungo tempo la verità sull’atteggiamento dell’esercito durante le operazioni di conquista in Libia o in Etiopia è stato taciuto sotto una coltre di opportuna noncuranza.

La verità, quella di oggi, venuta alla luce, parla di un’Africa italiana devastata da stragi, torture e deportazioni di intere popolazioni in campi di concentramento, con 100.000 morti nelle operazioni di conquista e riconquista della Libia tra il 1911 e il 1932, e addirittura 400.000 in Etiopia ed Eritrea tra il 1887 e il 1941. A questo si aggiunge, come detto, il quadro delle violenze di genere, che all’epoca erano vissute come perfettamente “normali”, cita un articolo di “Roba da Donne”.

Le relazioni sessuali intrecciate tra donne africane, spesso appena bambine o poco più, e colonizzatori furono definite “madamato”, termine con cui si intende una relazione temporanea, pur se non occasionale, tra un cittadino e una “suddita indigena”.

Tuttavia dopo la creazione dell’impero vennero predisposti dei meccanismi giuridici tesi a riaffermare il prestigio dei bianchi, tra cui il divieto alle relazioni coniugali ed extraconiugali tra “razze diverse”, al riconoscimento legittimo e all’adozione dei figli nati dalle unioni tra cittadini e suddite, e l’instaurazione di una severa segregazione razziale che rimandò i “meticci” nella comunità di appartenenza, sciogliendo ogni istituzione precedentemente creata per la loro assistenza.

Chiaro che, in un contesto del genere, le donne africane vennero stigmatizzate tre volte: per razza, per classe, per genere. Senza contare che il divieto di relazioni “legittime” tra conquistatori e donne africane, acuì, in molti italiani, il desiderio di possederle comunque, aumentando a dismisura gli atti di violenza nei loro confronti.

Il “madamato” segnava il dominio autoritario e assoluto del colonizzatore sull’indigeno, dell’uomo sulla donna, dell’adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole.


Questa non è cultura dello stupro?
Ormai dovremmo essere stanchi di ascoltare frasi che negano l’evidenza. Basta leggere o ascoltare qualsiasi notizia del genere. Se una donna viene stuprata, molti commenti si concentrano sulla vittima: per come era vestita, per come provocava, o ancora per come se lo doveva aspettare.

“Mi ha stuprata un uomo.
Non una strada buia.
Non una minigonna.
Non la mia imprudenza.
Non la mia bellezza.
Non il desiderio.
Non la poca cautela.
Un uomo.”

Chi stupra lo si riconosce da nome e cognome. Non dai centimetri di tessuto o dalla percentuale di cotone e di sintetico sull’etichetta. Io urlo. Urlo la gioia di essere donna e in quanto tale piena di vita e di ribellione. Urlo al vostro cospetto, perché sul gradino in basso non voglio starci, pretendo il piedistallo accanto a voi. Chiedo rispetto dopo anni in cui mi sono dovuta sentire inferiore. Chiedo attenzioni, opportunità, occasioni. Chiedo, anzi, pretendo libertà. Oggi io voglio sentirmi libera di indossare ciò che voglio, senza accelerare il passo quando sento una presenza dietro di me; voglio sentirmi libera di dire ciò che penso; di ambire a un posto di lavoro e a uno stipendio che non abbia nulla in meno rispetto a quello di un uomo. Voglio, un giorno, presentare a mia figlia un mondo che sappia portarle rispetto. E se ciò mi rende colpevole Vostro Onore, allora mi imprigioni, urlerò più forte, perché il mondo che lei mi mostra non fa per me; perché si parla e si riparla di parità dei sessi, ma io continuo a essere sul gradino più basso. Fatemi spazio! Inizia la scalata verso il podio, accanto a voi uomini. Ci sarà spazio a sufficienza per entrambi un giorno.



D. V. IV B linguistico

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