“Quando la morte ci sfiora, iniziamo davvero a capire cosa significhi vivere.”
Ci sono film che intrattengono, altri che emozionano, alcuni che lasciano un’impronta passeggera. Poi ci sono opere come “La società della neve”, che non solo raccontano una storia, ma la incidono nella coscienza dello spettatore, lasciando un’eco che risuona ben oltre i titoli di coda. Diretto da J.A. Bayona, questo film è molto più di una cronaca di un disastro: è un viaggio profondo nell’animo umano, una riflessione toccante su cosa significhi essere vivi, su cosa resti dell’umanità quando tutto sembra perduto.
“La società della neve” trae ispirazione da una storia vera, già nota al grande pubblico come il disastro aereo delle Ande. Il 13 ottobre 1972, un aereo che trasportava una squadra di rugby uruguaiana si schiantò tra le vette ghiacciate della Cordigliera delle Ande. A bordo c’erano 45 persone, tra giocatori, familiari e membri dell’equipaggio. Solo 16 di loro riuscirono a sopravvivere dopo 72 giorni di freddo, fame e disperazione.
Il film prende il titolo dal libro “La sociedad de la nieve” di Pablo Vierci, che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti, concentrandosi non tanto sull’epica del sopravvivere, ma sul senso profondo della fratellanza che nacque tra quei ragazzi persi nel nulla.
Bayona fa una scelta narrativa potente: non pone al centro un unico protagonista, ma costruisce un racconto corale, affidando la narrazione a Numa Turcatti, uno dei passeggeri che non sopravvisse. Questa decisione conferisce al film un’aura poetica e tragica al tempo stesso: la voce narrante è quella di un giovane che non ce l’ha fatta, ma che attraverso il ricordo dà voce ai suoi compagni, ai sogni spezzati, agli abbracci dati per l’ultima volta.
La pellicola si apre con il viaggio, con i sorrisi, le battute, le speranze di ragazzi pieni di vita. Poi, in un attimo, la violenza del destino: l’aereo precipita, e con esso crollano tutte le certezze. I superstiti si ritrovano in un deserto di neve, senza cibo, senza aiuto, senza una direzione. È qui che nasce la vera “società della neve”: un microcosmo di solidarietà, di conflitti, di scelte impossibili.
Uno degli aspetti più controversi e trattati con una delicatezza straordinaria è il momento in cui i ragazzi, ormai stremati, comprendono che per restare in vita dovranno compiere l’inimmaginabile: nutrirsi dei corpi dei compagni morti. Bayona non indugia mai nel morboso o nel sensazionalismo. Al contrario, affronta questo tema con una dignità rara, lasciando emergere il dibattito morale, la paura, la repulsione, ma anche il coraggio di chi, pur di non cedere alla morte, accetta di trasformarsi.
Quello che potrebbe apparire come il punto più oscuro del film, si rivela invece uno dei più profondi: non si tratta di cannibalismo, ma di un gesto di amore, di fiducia, di dono. Quei corpi non sono più solo resti umani, ma diventano il legame che permette ai vivi di resistere. I superstiti si sentono custodi di chi è morto, e decidono che vivranno anche per loro.
Dal punto di vista tecnico, “La società della neve” è un capolavoro. Bayona gira gran parte del film in ambienti reali, tra la neve, il freddo, la fatica. La fotografia è cruda e bellissima al tempo stesso: il bianco abbacinante delle Ande diventa un personaggio a sé, una presenza ostile ma anche maestosa. La colonna sonora accompagna senza mai sovrastare, con momenti di silenzio che parlano più di mille parole.
Gli attori, molti dei quali giovani e sconosciuti, offrono interpretazioni commoventi, autentiche, mai teatrali. Ogni sguardo, ogni gesto, è carico di significato. Non ci sono eroi, non ci sono santi. Solo ragazzi che cercano disperatamente di tornare a casa.
È un film che spinge a riflettere su chi siamo davvero. Ci pone domande difficili: che cosa saremmo disposti a fare per sopravvivere? Che cosa significa vivere? E cosa resta dell’essere umano quando tutto viene spogliato, quando non c’è più società, cultura, religione, ma solo la neve e la morte?
Eppure, in mezzo a questo scenario disperato, la pellicola è attraversata da una luce potente: la speranza. Una speranza che non è cieca, ma che nasce dalla solidarietà, dall’amicizia, dalla capacità di sacrificarsi per l’altro. È la speranza che, anche nella notte più lunga, qualcosa di umano sopravvive. Qualcosa che ci rende ancora capaci di amare, di lottare, di ricordare.
Alla fine, “La società della neve” non è un film solo per ricordare i sopravvissuti, ma anche, e forse soprattutto, per dare voce a chi non è tornato. A quei corpi rimasti tra i ghiacci, che però hanno salvato gli altri. È un inno alla memoria, un invito a non dimenticare che, a volte, la vita si costruisce anche sulla morte. E che il legame tra esseri umani, in condizioni estreme, può diventare sacro.
Un film che non si guarda. Si vive. Si soffre. Si porta dentro. Un’opera che merita ogni attenzione, ogni lacrima, ogni momento di silenzio che segue. Perché “La società della neve” è, in fondo, un racconto di ciò che significa essere vivi, quando il mondo sembra finito. E forse, nonostante tutto, proprio lì inizia il vero significato della vita.
S. M.
1B Classico
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